Michela Murgia: «La famiglia? È un’addizione»

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Si è spenta a 51 anni Michela Murgia. VITA aveva dialogato con lei all’indomani dell’uscita di "Accabadora", con cui poi vinse il Premio Campiello. Un ritratto intenso della sua Sardegna e dei “fillus de anima”, in sistema che alla base della famiglia vede prima di tutto la volontarietà di essersi scelti reciprocamente. Come ha fatto lei, che fill’e anima lo è stata, con la sua famiglia queer.

La solitudine ci ha presi ostaggio. La famiglia non è più il filo di una rete, è solo un nucleo. E questo è un male. Lo sa bene Michela Murgia, che con il suo Accabadora parla di famiglie che s’incontrano secondo una regola completamente diversa. Quella della comunità. Bisogna stare in Sardegna e bisogna ascoltare parole antiche, come fillus de anima, per capire. A lei, che fill’e anima lo è stata, questa società fatta di famiglie-monadi che si cullano in una retorica stucchevole e programmano persino la propria fine, davvero non piace.

Cominciamo dalle parole. Chi è un fillus de anima? Bambini in affido?

È una situazione differente per logica e per contesto. La logica dell’affido è: sottrazione alla famiglia d’origine e addizione a una nuova famiglia. Qui abbiamo una moltiplicazione. La pratica dei fill’e animanon sorge in una situazione di conflittualità. Il termine stesso fa sottintendere che ci sia una relazione preesistente alla domanda, che le due famiglie già si frequentino e che il bambino abbia una conoscenza diretta della persona che “lo chiede in figlio”. Ed ecco un altro elemento distintivo: la volontarietà. Tutti devono essere d’accordo e il bambino stesso, quasi sempre in un’età tra i 10 e i 14 anni, deve dare il suo consenso. Direi che i fill’e anima sono gli unici a cui viene chiesto di nascere. La comunità locale sostiene e certifica questo passaggio di patria potestà che però non recide i legami di sangue. Non è un meccanismo facile da capire, perché a noi oggi manca il forte contesto relazionale di co-genitorialità che era proprio delle piccole comunità rurali, dove la solidarietà era l’unica forma di stato sociale possibile. Le cose che per noi oggi sono inaccettabili perché ce le aspettiamo dai servizi sociali allora le faceva il vicinato, lo stretto parentado.

Un altro elemento distintivo dei fill’e anima è la volontarietà. Tutti devono essere d’accordo e il bambino stesso deve dare il suo consenso. Direi che i fill’e anima sono gli unici a cui viene chiesto di nascere

Quanto è ancora attuale questa tradizione?

Il più giovane fill’e anima che ho incontrato è nato nel 1984, dunque è ancora una pratica in essere. Certo, è in decrescita perché la mentalità sta cambiando e anche nei paesi in Sardegna si comincia a sentire la necessità di una burocrazia. Quarant’anni fa nessun pezzo di carta poteva valere più del consenso di un intero paese. Infatti le uniche testimonianze le abbiamo nei testamenti: i fill’e anima venivano nominati eredi dalle famiglie che li avevano accolti. Spesso quelle disposizioni date in punto di morte sono straordinarie, commoventi lettere d’amore.

Lei stessa è fill’e anima. Come è stata la sua esperienza?

È stata atipica. Nel mio caso il “passaggio” si è realizzato molto tardi, a cavallo dei 18 anni, perché mio padre non era d’accordo. È stato doloroso, però mi ha condotta anche verso opportunità, prevalentemente quella di studiare, che non avrei mai potuto avere nella famiglia naturale. Mia madre questo l’aveva capito benissimo, ecco perché era disposta, con ambivalenze, a questo cedimento...

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