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Medio Oriente: alcune lezioni
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Gli scenari mediorientali sono un laboratorio geopolitico sempre attivo per comprendere le direzioni della politica internazionale, alle prese con l'attualità del disordine mondiale, nel quale l'accavallarsi incessante di notizie che non vanno aldilà della quotidianità, quasi ci fa perdere di vista la punteggiatura attraverso cui è possibile "leggere" i fatti del mondo.
Il caso della crisi libanese di questa estate 2006 è esemplare. Le devastanti immagini del conflitto hanno scandito il tempo dell'estate, e, oggi che i soldati italiani insieme a quelli di altre nazioni sono chiamati a vegliare sulla pace tra Libano e Israele, chi è disposto a ricordare che i due soldati israeliani rapiti da Hezbollah - evento che ha causato un conflitto con oltre 1000 morti - non sono stati ancora liberati? E ancora, ci si interroga sul destino dell'altro giovane soldato di T'shal rapito a Gaza, qualche giorno prima dello scoppio della crisi libanese (il 12 luglio 2006), che la possente ritorsione israeliana non è riuscita a liberare? La Terra Promessa appartiene a quella categoria di crisi di lunga durata e che appare e scompare dal mondo delle informazioni solo in funzione dell'emergenza che ancora i contendenti riescono a provocare, facendoci quasi dimenticare che solo questo ennesimo atto del conflitto israelo-palestinese ha prodotto la (temporanea) ri-occupazione della Striscia di Gaza, ancora ribollente di rabbia e miseria senza annullare le minacce per la sicurezza degli israeliani.
Quanto all'Iraq, il paese nel quale Washington ha promesso, nel 2003, di esportare la democrazia, resta il tragico palcoscenico di attentati che si susseguono a ritmo quotidiano. Ed è proprio questa quotidianità che ci sconfigge, e lascia che i morti di Bagdad davvero non facciano più notizia. Solo tre anni fa, il Presidente George W.Bush aveva annunciato la "fine della guerra".
Con l'ultimo casus belli libanese, Israele riesce a guadagnare il consenso pressoché unanime all'interno della società israeliana, l'appoggio del suo grande alleato americano e tuttavia, con il passare dei giorni e l'intensificarsi dei bombardamenti, critiche irritate nella comunità internazionale per l'uso "sproporzionato" della forza. L'ultima avventura libanese ha trovato il suo epilogo al Palazzo di vetro con la risoluzione Onu 1701 attraverso la quale si riesce ad ottenere il consenso necessario per il cessate il fuoco ed per l'invio di nuove forze multinazionali al confine israelo-libanese. Nuove forze, poichè la Missione Unifil vede rinnovato il proprio mandato nel 2006, ma i Caschi blu erano già su quel confine. Da 28 anni. A conferma che le cose non sono mai semplici nel Medio Oriente.
Indietro nella storia
Beirut dell'estate 2006 è come la pellicola di un film che scorre all'incontrario. Torniamo al 1978, (anno in cui nasce la missione Unifil), e all'estate del 1982, quando a provocare l'intervento militare in Libano fu un altro casus belli (il tentato omicidio dell'ambasciatore israeliano a Londra da parte, si disse, del gruppo terroristico palestinese di Abu Nidal). L'operazione, secondo Israele, perseguiva obiettivi importanti: infliggere un colpo mortale alla OLP, che nei campi profughi del Sud del Libano aveva creato un proprio governo del territorio, provocando ripetuti attacchi contro la confinante Galilea; favorire l'ascesa a Beirut di un governo cristiano "amico"; neutralizzare la Siria della quale Israele aspirava ad annettere le alture del Golan, occupate con la guerra del 1967. Come principale risultato Israele ottenne la cacciata dell'OLP dal Libano (ma non affatto la sua scomparsa dalla scena palestinese), con un prezzo altissimo per le popolazioni civili che ancora oggi pesa sulla coscienza dell'"unico stato democratico del Medio Oriente": le stragi di Sabra e Chatila. Circa 3000 morti.
Alla vigilia del cessate il fuoco della crisi di mezza estate 2006, tra gli stessi israeliani favorevoli all'intervento, alcuni sono divenuti fautori della cessazione delle ostilità: Israele aveva raggiunto i "suoi obiettivi". Forse aveva addirittura vinto questo ennesimo conflitto. Sarebbe più utile ricordare quanto di breve durata furono i risultati ottenuti con la operazione militare del 1982, chiamata "Pace in Galilea". Fu proprio in quell'anno, poco dopo l'attacco al Libano, che l'allora nascente Repubblica islamica dell'Iran schierò nella valle di Bekaa i propri miliziani che addestrarono i gruppi sciiti del Libano meridionale, da sempre ai margini della vita politica e sociale del loro paese. Nasceva così Hezbollah. Il Partito di Dio.
Il paradosso è che quel che oggi combatte Israele È esattamente ciò che ha contribuito a creare. Non molto diverso È ciò che è accaduto in Palestina dopo lo scoppio della prima Intifada, nel 1987. Ormai È noto quanto Israele guardò all'epoca con favore, la nascente stella di Hamas, pur di ridurre l'influenza della OLP di Arafat nei Territori, crescendo la serpe in seno di un terrorismo suicida ed omicida di stampo religioso che non ha avuto precedenti nella lunga storia della questione palestinese. In occasione del recente attacco al Libano appare utile al governo israeliano invocare il proprio contributo alla lotta contro l'"Asse del male" costruitosi attorno alla dorsale Damasco - Teheran - Bagdad - Al Qaeda - Hamas - Hezbollah, mescolando situazioni che sono in realt molto diverse tra loro, e stabilendo un collegamento tra quel che avviene ai suoi confini interni ed esterni e la guerra al terrorismo globale.
L'illusione unilateralista
Nel non semplice ginepraio mediorientale la prima lezione da trarre è la "fine dell'illusione unilateralista" rivelando la grave mancanza di una visione politica globale che possa condurre aldilà di un approccio meramente militare alla sicurezza. Nell'ultima operazione sul fronte libanese, Israele scorge l'opportunità di distruggere il potenziale militare di Hezbollah, che grazie alle nuove tecnologie (e ai finanziamenti siriani e iraniani) potrebbe essere in grado di sfidare non più solo la Galilea, ma l'intero territorio israeliano. È chiaro che questo obiettivo non è stato raggiunto e che Israele, esattamente come il suo grande sponsor americano in territorio iracheno, vive nel pregiudizio, a suo stesso danno, della propria supremazia militare, e che si ritrova oggi in Libano più o meno allo stesso punto del 1982.
Quanto alla linea del fronte palestinese, vale la pena di ricordare che nell'estate di un anno fa, mentre il mondo assisteva al ritiro unilaterale da Gaza dell'esercito israeliano, tutti (inclusi i nostri rappresentanti politici, raggiungendo, da sinistra a destra, una singolare unità bipartisan di opinioni) si affrettano a salutare questo 'storico evento' come la prova della capacità di Sharon di accedere finalmente ad una visione politica. Quasi nessuna voce si sollevò per mostrare ciò che invece era già chiaro, e che molti opinionisti hanno sottolineato solo nel luglio 2006. Quando l'esercito israeliano ritorna, seppur momentaneamente, nella Striscia, si rende finalmente evidente (come ha scritto il giornale israeliano Haaretz,15 settembre 2006) che "tirare fuori le truppe da Gaza era molto più facile che tirare fuori i palestinesi dalla disperazione". Piuttosto che consentire ad Israele di accedere ad una visione politica di più ampio respiro, la decisione di lasciare Gaza, senza negoziare alcunché con la controparte, è l'approdo alla più completa sfiducia nella possibilità di dialogo. Il ritiro unilaterale finisce per rappresentare oggi il più triste dono che il global unilateralism abbia fatto al Medio Oriente, e in particolare al miglior alleato locale degli Usa persuadendo Israele che è solo, e che non ha alcun interlocutore con cui negoziare paci o ritiri.
Questa impotente solitudine è, però, un forte segnale per la comunità internazionale: non può essere sufficiente compiacersi che l'illusione unilateralista sia finita, né è possibile continuare a rifiutare una strategia di sicurezza fondata su un approccio militare dei problemi e sulle decisioni politiche unilaterali, senza fornire una alternativa. Senza dubbio l'unilateralismo americano ha finito per penalizzare proprio il suo partner mediorientale privilegiato, privando Israele dei suoi canali di comunicazione. Tuttavia gli americani sono infastiditi dalle accuse di unilateralismo, anche se continuano a non nutrire al momento alcuna fiducia nei meccanismi multilaterali ritenuti inefficienti a fronteggiare le grandi sfide alla pace ed alla sicurezza del mondo dopo l'11 settembre. Gli stessi partner europei, che non hanno risparmiato critiche al loro partner oltre atlantico, non si sono assicurati nei 50 anni di guerra fredda la prosperità e la pace ponendosi sotto la protezione della Nato?
La vera sfida dell'ordine mondiale consiste nella capacità di creare quella indispensabile interconnessione tra la dimensione militare della sicurezza e quella politica. Mentre la dimensione militare della sicurezza è basata sull'uso della forza, la dimensione politica si forgia sull'uso del negoziato, in cui si confrontano gli interessi delle comunità in condizioni di supremazia e di quelle in condizioni di debolezza. La storia è piena di esempi in cui l'assenza di questi presupposti non ha che generato nuovi conflitti.
La pace sostenibile e il ruolo europeo
Per questi delicati compiti occorre una leadership internazionale, e l'impegno degli architetti delle paci ad investire con maggior equilibrio le proprie risorse tra aspetti militari e aspetti civili e politici delle strategie di sicurezza. Ciò significa assumere con responsabilità anche i costi finanziari della pace nei teatri di crisi. Il bilancio 2006-2007 delle Pko (Peace keeping operations) è di cinque miliardi di dollari, mentre nel solo Iraq un mese di guerra costa 70 miliardi di dollari. La spesa mondiale pro-capite per gli armamenti è pari a 128 dollari all'anno, laddove per l'intero sistema Onu (incluso il programma per l'alimentazione mondiale e le spese per i rifugiati) si sborsano soltanto 0,80 centesimi di dollaro a testa.
L'Europa gioca già il suo ruolo economico e finanziario sulla scena internazionale ma è ovvio che la chiave dei forzieri di Bruxelles non può essere l'unica. Il deficit politico europeo è ancora troppo evidente, eppure chi se non l'Europa può lavorare per ri-orientare le attuali traiettorie della politica internazionale? L'Unione euorpea può offrire oggi alla comunità internazionale un modello di relazioni internazionali. L'originale - ancorchè incompleto - processo di integrazione europea è scaturito dalla pratica costante del dialogo e del negoziato tra le sue parti, fortemente voluto proprio perché il Vecchio Continente conosce bene le guerre. Dopo secoli di ricorso alle armi e due conflitti mondiali generati in Europa, i padri fondatori della Comunità Europea affidarono la costruzione europea ad un principio fondamentale: bandire dalle proprie cancellerie la politica di potenza e rinunciare ai mezzi militari per risolvere le controversie tra Stati. È un punto di partenza per far valere nel consesso mondiale la prospettiva del dialogo e della mediazione di cui si nutre il multilateralismo, e gli europei sanno bene le virtù e i limiti della gestione dei "processi". L'Europa è un edificio in perenne costruzione, sorta negli anni '50 con sei inquilini, ne conta oggi 25. Una simile ingegneria offre prospettive di lunga durata, ed è più agevole pensare che esse non siano adeguate al cospetto delle sfide globali. Ma il dilemma resta: quanto siamo disposti a abbandonare approcci di breve periodo forse più sbrigativi, ma non durevoli, per affrontare le prove che ci attendono con una pratica più impegnativa e costosa, e che richiede a tutti di rinunciare alle semplificazioni, ed ammettere la complessit , il punto di vista altrui, per poter mediare soluzioni?
Occorrerebbe una nozione di 'pace sostenibile', che come quella di 'sviluppo sostenibile', oggi in voga, ci indichi, nonostante continuiamo ad ignorarla, che c'è una strada da seguire per soddisfare i bisogni di consumo delle generazioni attuali, senza compromettere quelli delle generazioni future alle quali stiamo promettendo un mondo che ha logorato le sue risorse. Così una nozione di pace sostenibile, se esistesse, potrebbe renderci più chiaro che l'attuale trend della politica internazionale deteriora la pace e la sicurezza del nostro pianeta anziché rinforzarla. Non avremmo ancora risolto le ingarbugliate crisi in cui ci siamo impantanati, ma forse possiamo segnare una traccia nella complicata mappa del caos globale. E le tracce servono a renderci più consapevoli dei sentieri che stiamo percorrendo e magari ci aiutano a cambiarli.
Il ruolo dell'Italia
L'Italia ha iniziato a giocare sul teatro libanese del 2006 un ruolo attivo per la soluzione della crisi, lavorando sul fronte multilaterale non solo per costruire il consenso necessario all'invio delle forze multinazionali, ma, fatto molto più importante, dichiarando di voler coinvolgere nella soluzione della crisi anche Damasco e Teheran. Due paesi dell'Asse del Male con il quale Washington e Gerusalemme si rifiutano di dialogare sono possibili interlocutori della pace. Alla iniziativa italo-europea giunge il formale ringraziamento del portavoce del governo israeliano: Gerusalemme ha bisogno di ristabilire canali di dialogo nella regione. La missione Unifil in Libano è carica di insidie, ma il vero pericolo per i Caschi blu è probabilmente il deterioramento del quadro politico della regione. L'Europa sembra considerare più di Washington che non si potrà costruire nessuna pace (e tanto meno la democrazia) del "Nuovo Medio Oriente" senza il coinvolgimento dei protagonisti locali, che, in definitiva, chiedono di essere riconosciuti come controparte per la costruzione degli equilibri regionali.
di Silvana Barbirotti
Fonte: Missione Oggi
L'autrice è manager didattico della Facoltà di Scienze politiche dell'Università di Salerno. Collabora a Rivista internazionale dei diritti dell'uomo e Politica internazionale.