Mare, mare, mare, ma che voglia di scappare…

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Qualche giorno di riposo trascorso al mare, approfittando di un periodo in cui le tensioni lavorative sono un po’ allentate. Non voglio allontanarmi troppo da casa nel tentativo di ottimizzare tempi e costi e scelgo una destinazione a portata di un paio d’ore di macchina. Ma la spiaggia è cambiata, non è più quella dei ricordi di bambina, non lo è più per l’età che passa e non lo è più neanche per Legambiente, che di vele a Jesolo nel 2015 ne ha concessa soltanto una, e non tira neanche un alito di vento ad accarezzarla.

In effetti è il degrado la prima cosa che colpisce, la distesa di grattacieli costruiti in riva al mare nel periodo del boom economico, schiera decadente che per lo più si porta addosso l’erosione del sale e dell’incuria. E’ la spiaggia che colpisce, puntellata di ombrelloni chiusi, coltivati in maniera intensiva come i sogni di noi che la frequentiamo, gente di periferia. E’ l’assenza di occasioni accattivanti di cultura, schiacciata da vetrine strabordanti di inutili merchandising, luci abbaglianti, giochi che non sono più pensati per essere giocati insieme, ma che ammiccano a bambini inebetiti a guardarli mentre funzionano da soli. Sono le zaffate d’acqua di ristagno che soffiano dal mare, e che riesci a evitare solo se ti alzi all’alba per fare quattro passi sulla battigia deserta, sporca di plastiche, vetri e qualche medusa spiaggiata.

E’ tutto questo, ed è altro, che non c’entra per nulla con il degrado, ma che lascia nell’anima la pesantezza della sabbia bagnata. In particolare altri e altre, loro, gli ambulanti che sotto il sole del mezzogiorno cercano riparo all’ombra dei lettini inutilizzati, riposando piedi e voci dall’incessante cantilena che ripetono per ore. C’è il mondo che macina chilometri su questa spiaggia, ognuno con il suo territorio da marcare, i compiti suddivisi, le zone assegnate: donne e uomini cinesi, delicati nell’incedere ma energici nell’operare, propongono massaggi con oli di infima qualità; indiani e bengalesi offrono tatuaggi, tristi bastoni da selfie, caricabatterie, occhiali da sole taroccati, fili malinconici di aquiloni contro il cielo; donne africane, eleganti nella postura e negli abiti tradizionali, invitano ad acconciarsi i capelli con treccine colorate; uomini neri, per lo più senegalesi, vagano con appesi al braccio drappelli di borse orrende, imitazioni di originali altrettanto orrende; uomini del nord Africa si caricano in spalla pile di asciugamani, teli e tovaglie. Un mondo che frequenta il mare di giorno e di notte, li vedi la sera sulle panchine o sui lettini ormai chiusi e riordinati con una birra in mano, a chiacchierare con i connazionali, lo schermo di un cellulare che luccica vicino al viso o si accende tra le mani; li vedi al mattino quando esci presto a correre, immersi nei pensieri segreti di un altrove che va oltre l’orizzonte disegnato dal mare, mentre aspettano la consegna della merce della giornata.

E poi ci sono loro, gli italiani, che in spiaggia parcheggiano i loro stand di scamiciati, costumi da bagno, gonne, stracci. Stracci sì, perché i tessuti sono di qualità scadente e i prezzi si gonfiano di un Made in Italy stampato solo sull’etichetta di cartone. Leggila in controluce quell’etichetta, e vedrai che si tratta piuttosto di un “sold in Italy”, prodotto anywhere else purché costi meno, perché il lavoro non serve pagarlo, la qualità viene dopo il profitto, i diritti non vengono nemmeno.

Mentre passeggiavo lungomare pensavo a un trafiletto che avevo letto tempo fa, dove si raccontava di un esperimento proposto in Germania ad alcuni passanti, che si sono trovati di fronte a un distributore di magliette alla moda, al costo di soli 2 euro. Uno di quegli “affari” a cui non si può rinunciare insomma, anche se l’armadio è già pieno e non sai cosa metterti solo perché i troppi capi che hai non li ricordi nemmeno tutti. Molti inserivano la monetina ma… prima di consegnare la merce il distributore mostrava qualche immagine. Trovata pubblicitaria? No, non questa volta. Le immagini non ritraevano modelle “photoshoppate” né aitanti giovani impomatati: ritraevano lavoratori sfruttati, pessime condizioni di lavoro, diritti negati. Subito dopo la richiesta di conferma per procedere all’acquisto: “Vuoi ancora comprarla?”. L’alternativa, una donazione per una causa solidale, promossa in occasione del Fashion Revolution Day per commemorare le vittime del Rana Plaza: più di 1000 persone uccise nel 2013 mentre cucivano i nostri vestiti. Grandi marche sì, ma diritti minimi, o inesistenti, o doverosamente risarciti con vergognoso ritardo.

Il video dell’esperimento si chiude con una domanda e un’affermazione. La prima è quell’interrogativo che ancora troppo pochi si fanno, e di cui ancora troppi ignorano la risposta: #whomademyclothes? L’affermazione, invece, suona come un invito alla speranza, alla condivisione, all’informazione, per dire che le persone, quando sanno, cambiano atteggiamento.

So che non sono l’unica a sperare con tutto il cuore che sia così.

Ripenso però a quando, da bambina, vedevo gli ambulanti scappare dalla polizia entrando in acqua con tutta la mercanzia per non farsi arrestare a causa di quel lavoro irregolare strappato alla povertà. A volte perdevano sul fondo parecchi oggetti, che alcuni bagnanti li aiutavano a raccogliere e che altri invece, con la nonchalance dell’indecenza, tenevano per sé quando si erano allontanati. Penso ai divieti, alle proibizioni, a questi inseguimenti da Baywatch dei poveri. Penso a quanta tristezza, malavita e ingiustizie si nascondano dietro quegli occhiali che compriamo sotto l’ombrellone senza neanche pensarci, prima una granita e dopo un gelato.

E ho la sensazione che invece le cose, rispetto a quando venivo al mare da piccola, non siano affatto cambiate: guardando quante persone si affollano attorno allo stand inghiotto un momento di scoramento, uno sconforto inerme.

Anna Molinari

Giornalista freelance e formatrice, laureata in Scienze filosofiche, collabora con diverse realtà sui temi della comunicazione ambientale. Gestisce il progetto indipendente www.ecoselvatica.it per la divulgazione filosofica in natura attraverso laboratori e approfondimenti. È istruttrice CSEN di Forest Bathing. Ha pubblicato i libri Ventodentro (2020) e Come perla in conchiglia (2024). Per la testata si occupa principalmente di tematiche legate a fauna selvatica, aree protette e tutela del territorio e delle comunità locali.

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