Libia. L’ipocrisia del Governo italiano e dei suoi giannizzeri

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Poco dopo lo scoppio delle rivoluzioni in Tunisia e in Egitto, il ministro degli Esteri italiano, Franco Frattini, aveva pronosticato che in Libia non sarebbe accaduto nulla perché il regime di Gheddafi era stato previdente e “aveva fatto le riforme”. All’inizio della rivolta violenta in Cirenaica, quando gli insorti sembravano sull’orlo di rovesciare il Colonnello, in un batter d’occhio la comunità internazionale scaricò il Rais accusandolo di crimini contro l’umanità e deferendolo al tribunale dell’Aia.

Ma sul campo la situazione si è repentinamente rovesciata e Gheddafi, nel corso di una controffensiva senza pietà anche verso i civili, stava per riprendere il controllo del Paese. A questo punto interviene l’Onu e, su fortissima pressione della Francia, comincia l’operazione militare dagli esiti molto incerti.

Questo è lo scenario che conosciamo. Se tutto fosse tornato come prima il nostro Governo sarebbe stato molto felice. Con lo sciagurato Trattato di amicizia italo-libico, Berlusconi aveva colto tre (presunti) obiettivi: accordi energetici per lo sfruttamento di gas e petrolio, lucrosi accordi commerciali e soprattutto il blocco del flusso degli immigrati, sbandierato dalla Lega come un successo travolgente. Per raggiungere questi scopi l’Italia ha inghiottito tutto. Pagare un miliardario risarcimento per danni di guerra. Sopportare le amazzoni, i baciamano, le tende beduine, le lezioni di Corano, i visionari proclami di Gheddafi. E soprattutto chiudere gli occhi di fronte alla sistematica violazione dei diritti umani in Libia, al carcere e alla tortura riservata ai profughi, alla morte invisibile di centinaia di persone.

Cose terribili che avvengono in molte parti del mondo senza che il Consiglio di sicurezza dell’Onu venga scomodato: ma in Libia questi massacri sono avvenuti anche nel "nostro" nome, per favorire l’industria italiana delle armi, per tutelare gli interessi delle nostre banche e delle nostre industrie, per permettere al partito di Bossi di sventolare il trofeo di un “mare vuoto” perché ripulito dai migranti. Oggi comprendiamo la falsa lungimiranza di questo approccio. Il collasso di Lampedusa è invece frutto di questa miope politica che si appoggia sui dittatori. Ma il Governo italiano oggi è maggiormente responsabile di ciò che avviene.

L’ambiguità di fondo e una certa predisposizione alla benevolenza verso i tiranni spingono Berlusconi a dichiarazioni improvvide, meglio scandalose, di appoggio al Rais: dal “Non voglio disturbare Gheddafi” al “Sono addolorato per lui”. A cominciare dall’invenzione del “bunga bunga”, il nostro presidente del Consiglio deve molto al dittatore libico.

Fin qui il contesto italiano che determina l’atteggiamento ondivago nei confronti dell’intervento militare internazionale. Che, come ogni guerra, divide le coscienze. Ma che in queste circostanze era inevitabile e opportuno. L’alternativa sarebbe stata la vittoria di Gheddafi sul campo, il massacro degli oppositori, l’inasprimento del regime e (forse) il ritorno alle strette di mano e ai sorrisi dell’eterna amicizia italo-libica.

È ovvio che l’interventismo di Sarkozy deriva da precisi calcoli strategici. La Francia, colta di sprovvista dalle rivoluzioni arabe, voleva rientrare in qualche modo nello scacchiere geopolitico: l’unilaterale e finora unico riconoscimento del governo di Bengasi era propedeutico ad uno sfruttamento francese del petrolio della Cirenaica magari scalzando l’Eni; il ruolo mediatico dell’Eliseo era necessario ad uso interno, poiché fra un anno si vota e i sondaggi non sono favorevoli al presidente uscente. Tutto vero, tutto normale. Come è vero che l’intervento è stato gestito male dal punto di vista strategico-militare (anche se è sempre difficile dare un giudizio competente in merito) e malissimo a livello politico con la divisione dell’Europa, i tentennamenti di Obama e l’inutilità della Lega Araba. Come è vero che le bombe non risolvono la situazione nel medio periodo. Che gli insorti libici sono spinti anche da un sentimento di rivalsa clanica piuttosto che da istanze democratiche.

Ora però è venuto il tempo di liberarci di Gheddafi. L’intervento militare potrebbe essere un incentivo per un suo esilio (magari Berlusconi riesce a convincere il suo “amico” oppure potrebbe aiutare i ribelli a cacciarlo). Il paragone con Afghanistan e Iraq è improponibile. Un parallelismo si potrebbe fare con la guerra di Bosnia e con quella in Kosovo. L’intervento NATO nel 1995 spezzò l’assedio di Sarajevo (quante stragi si sarebbero evitate agendo prima), dopo i bombardamenti occidentali sulla Serbia nel 1999 il regime di Milosevic cadeva: nessuna di queste operazioni aveva avuto l’autorizzazione delle Nazioni Unite. Nei Balcani la situazione non è certo sanata, siamo in un punto di stallo. Ma oggi c’è una speranza. Venti anni fa no. Così potrebbe essere per la Libia.

Nel nostro frangente abbiamo capito poco delle rivoluzioni arabe in atto. Siamo stati colti alla sprovvista da questi giovani desiderosi di libertà. Sarebbe deleterio presentarci esclusivamente come quelli delle bombe, ma credo che l’intervento in Libia non pregiudichi il tentativo di instaurare un nuovo rapporto tra le sponde del Mediterraneo. La partita è molto delicata.

Tuttavia è istruttivo notare come, nei commenti sui giornali relativi alla guerra, la partigianeria italiana non abbia limiti: dal Giornale a Libero troviamo le stesse critiche che la sinistra faceva nel 2003 sull’Iraq (contesto totalmente diverso). Allora Feltri accusava i pacifisti di disfattismo e di proteggere i tiranni ora lui, per paura dei fondamentalisti islamici, preferisce sostenere la linea del non fare nulla.

Anche qui in Trentino i politici sono titubanti, a destra per il timore dell’“invasione mussulmana”, a sinistra per non perdere il contatto con i movimenti pacifisti, al centro e nel mondo cattolico perché “si poteva fare ben altro”. Ha ragione Fabio Pipinato, direttore di Unimondo, quando scrive che non esiste soltanto il capitolo VII della Carta dell’Onu (quello che autorizza l’azione di polizia internazionale), ma anche il sesto e l’ottavo che prevedono la possibilità di indagini approfondite per arrivare a un cessate il fuoco e a una soluzione diplomatica, e la via privilegiata di accordi sotto l’egida di organizzazioni regionali. Spingere Gheddafi ad andarsene sarebbe il prodromo per una nuova cooperazione.

Piergiorgio Cattani

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