Liberazione, oggi come ieri, un cammino che continua

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“Liberazione” è una parola più pregnante di “libertà”. Quest’ultima infatti rimanda ad una condizione già raggiunta, a uno stato di cose di cui si può godere. La liberazione invece è qualcosa di dinamico. È un processo, un cammino, una marcia verso la libertà. In questo senso la festa che celebriamo oggi non è soltanto il ricordo della fine dell’oppressione nazi-fascista sull’Italia, ma diventa l’occasione per una riflessione ad ampio raggio sul presente del nostro Paese e del mondo.

Il concetto di liberazione implica l’idea di movimento. È un passaggio dalla schiavitù alla libertà. Il modello è quello della Bibbia in cui si racconta l’esodo del popolo di Israele verso la terra promessa: la strada verso un futuro di libertà e di prosperità passa attraverso il mare dell’avversità, con un nemico sempre incalzante. È necessario superare il deserto della prova, del ripensamento, dell’errore, del desiderio di tornare indietro perché “era meglio quando si stava peggio”. Mosè, il condottiero, non è un eroe e non giunge a destinazione. Muore prima, sulla soglia. La liberazione sembra quindi incompiuta, interrotta. Questo però è inevitabile. Il cammino verso la libertà non è mai concluso. Oggi, utilizzando termini un po’ diversi, diremmo che la democrazia non è un dato di fatto acquisito una volta per tutte, ma una conquista che si raggiunge e si difende giorno per giorno. Per questo festeggiamo ancora il 25 aprile.

Nel corso della storia recente abbiamo assistito a molte marce per la libertà. Nel 1930 Gandhi organizzò la “Marcia del sale” un’imponente manifestazione durata molti giorni, partecipata da migliaia di persone, per rivendicare la possibilità per i semplici contadini indiani di sfruttare le saline, allora monopolio dei dominatori inglesi. Ricordiamo poi le marce di Martin Luther King, in particolare quelle avvenute in Alabama cinquant’anni fa e raccontate nel recente film “Selma”. I manifestanti per il diritto di voto delle persone di colore per tre volte tentarono di raggiungere Montgomery, la capitale dello Stato segregazionista: la prima marcia fu dispersa da un intervento violentissimo della polizia, la seconda fu interrotta, la terza arrivò a destinazione. Ma quanto lungo sarebbe stato (ed è) il cammino verso i pieni diritti civili! Né Gandhi né King, uccisi ambedue, non videro i loro sogni realizzati: l’India si divideva tra Indù e musulmani facendo nascere due Stati in continua guerra tra loro, King vide soltanto alcuni riconoscimenti per gli afroamericani… Il loro itinerario di liberazione è però stato fondamentale.

Cosa dire della nostra liberazione di 70 anni fa? Il processo si è fermato come si diceva negli anni di piombo? No, dobbiamo essere fieri della nostra democrazia. Fieri della lotta partigiana. Fieri di veder manifestare la brigata ebraica. Ciò non vuol dire che va tutto bene. Perché, appunto, la liberazione è un processo che non finisce. Che continua nelle diverse circostanze storiche. Oggi qualcuno dice che dobbiamo liberarci dal giogo tedesco o dell’Unione europea, dai “burocrati di Bruxelles”. Non credo che questa sia la strada giusta. Oggi la libertà di un Paese non è nazionalismo, non è autarchia, bensì partecipazione attiva ai nuovi processi storici che prevedono rafforzamento degli organismi internazionali, interconnessione economica e culturale, ricerca di diritti condivisi tra le culture, soluzione pacifica (per quanto è possibile) dei conflitti.

Papa Francesco ci chiama poi a un altro tipo di liberazione, a liberarci dall’indifferenza. Ieri sono stati celebrati i 100 anni dal genocidio armeno. Nel 1915 le “marce della morte”, in cui venivano convogliati tutti gli armeni dell’Anatolia – donne, vecchi, bambini, ricchi, poveri -, non portavano alla libertà, ma al deserto, al nulla, all’annientamento. Sotto i nostri occhi poi, ieri, oggi e domani, disperati si muovono dall’Africa, passano a stento il deserto, arrivano in Libia, poi sui barconi per arrivare in Italia, in Europa. Conosciamo le tappe, gli itinerari. Cosa cercano? La libertà, la “felicità” come ha detto il pontefice. Quelli sono i nuovi cammini di liberazione. A volte il Mediterraneo si chiude sopra questi migranti che tentano l’esodo, mentre stiamo a guardare, mentre tentiamo, anche senza dirlo, di fermarli, di reprimerli proprio come al tempo di King o di Gandhi. O del Faraone.

Dobbiamo festeggiare la liberazione del 1945, perché da quel giorno abbiamo iniziato un cammino per dotarci di diritti (ma anche di doveri) che traducessero le battaglie partigiane in una Costituzione che preveda libertà per tutti. Oggi la nuova frontiera riguarda i poveri del mondo, lavorare per la loro liberazione. Facciamolo per i nobili ideali del 25 aprile oppure per convenienza, perché solo migliorando le condizioni del loro paese questi poveri non verranno più a bussare a casa nostra.

Articolo apparso sul Trentino il 25 aprile 2015

Piergiorgio Cattani

Nato a Trento il 24 maggio 1976. Laureato in Lettere Moderne (1999) e poi in Filosofia e linguaggi della modernità (2005) presso l’Università degli studi di Trento, lavora come giornalista e libero professionista. Scrive su quotidiani e riviste locali e nazionali. Ha iniziato a collaborare con Fondazione Fontana Onlus nel 2010. Dal 2013 al 2020 è stato il direttore del portale Unimondo, un progetto editoriale di Fondazione Fontana. Attivo nel mondo del volontariato, della politica e della cultura è stato presidente di "Futura" e dell’ “Associazione Oscar Romero”. Ha scritto numerosi saggi su tematiche filosofiche, religiose, etiche e politiche ed è autore di libri inerenti ai suoi molti campi di interesse. Ci ha lasciati l'8 novembre 2020.

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