Le ragioni e le illusioni delle piccole patrie

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In Africa, i confini separano ciò che non ha senso separare o uniscono ciò che non vuole essere unito. È un continente che abbraccia più di un migliaio di gruppi etnici e aggregati linguistici, tenuti assieme dalle linee tracciate a tavolino dalle potenze coloniali.

Inevitabili, quindi, ciclici scossoni separatisti. Da un anno, ad esempio, sono riprese le proteste nelle regioni anglofone del Camerun. Rivendicazioni di un maggiore accesso a posti di lavoro pubblici e del riconoscimento dell’inglese come lingua ufficiale del sistema giuridico si sono tramutate in una vera e propria richiesta di indipendenza.

E stanno imprimendo una nuova accelerata separatista anche i militanti igbo indipendentisti del Biafra, regione del sud della Nigeria. Paese arlecchino con un cemento istituzionale ancora fragile. E se perfino il cardinale Onaiyekan, arcivescovo di Abuja, mette in dubbio il dogma della coesione nazionale («In politica tutto è negoziabile») significa che il virus democratico e unitario non ha ancora contagiato del tutto lo spirito etnico nigeriano.

Ma le architetture istituzionali d’importazione vacillano anche in altre aree: da Cabinda (enclave angolana in Congo) a Zanzibar (Tanzania), dal nord del Mali (Azawad) alla Cirenaica (Libia), dalla Casamance (Senegal) al Somaliland, solo per citarne alcune.

Uno studio ha evidenziato che, se fosse superato l’impianto statuale imposto dal colonialismo, gli stati africani raddoppierebbero. Una catastrofe per l’Unione africana, che non può tollerare la disintegrazione dei paesi membri che costituiscono le sue stesse fondamenta. Del resto, l’intangibilità dei confini è un principio cardine dell’Ua.

E allora? La domanda delle domande è come conciliare il legittimo desiderio di autodeterminazione dei popoli (soprattutto dei più oppressi) con un assetto geopolitico stabile, indispensabile per evitare il caos perenne e per costruire una maggiore integrazione dell’Africa.

Da Nigrizia.it

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