Land grabbing, lo scandalo della terra “rubata”

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Cacao, banane, mango e papaia. Ormai siamo abituati a trovare sugli scaffali dei supermercati prodotti che provengono da Paesi lontani, soprattutto per quanto riguarda frutta e verdura. Ma spesso da fuori arrivano anche limoni, olio d’oliva e altre tipicità italiane. Nel mare magnum dell’import-export internazionale, pochi sanno che si cela il fenomeno del land grabbing, in italiano “accaparramento di terre”, l’ultima forma di sciacallaggio dei Paesi più ricchi a danno di quelli più poveri. Per capire di che cosa si tratta, incontriamo Lylen Albani, campaigning advisor di Cesvi e coordinatrice della campagna Food Right Now per la lotta alla fame e la promozione del diritto al cibo.

Che cos’è esattamente il land grabbing?

«Si tratta di una conseguenza grave della scarsità e del degrado dei terreni agricoli, che porta i Paesi poveri di terra e risorse ma ricchi economicamente ad acquisire terreni nei Paesi ricchi di terra ma poveri economicamente, nell’Africa Subsahariana e America meridionale, che non a caso sono le zone più povere del pianeta, come ricorda l’Indice globale della fame. In questi paesi, i governi e le multinazionali con grandi capacità di spesa approfittano di un sistema di leggi particolarmente debole per affittare o acquistare grandi aree a prezzi più bassi».

Si tratta di un fenomeno recente?

«È stato identificato come tale nel 2011, quando l’International Land Coalition ne ha dettato le caratteristiche e lo ha sistematizzato. Ma i casi storici di land grabbing sono molto più antichi: pensiamo alla conquista del West, l’esempio più noto ed eclatante di accaparramento formale di terreni che non erano privi di popolazione. Anche la colonizzazione è stata basata su criteri simili. Il land grabbing moderno, invece, è diventato più evidente dopo la crisi dei prezzi del 2007-2008, ma è ancora in evoluzione».

Nella lista dei Paesi “grabbati” ci sono l’Indonesia, le Filippine, il Brasile ma anche l’Uganda, il Sudan, il Camerun, la Tanzania. Eppure nell’immaginario collettivo l’Africa è considerata una terra difficile da coltivare…

«L’Africa non è tutta uguale: la zona australe è completamente diversa da quella sahariana. Il Burkina Faso, il Mali e il Ciad sono ben diversi da Zambia, Zimbabwe e Mozambico, che da sempre sono considerati i granai del continente ma anche del resto del mondo. Certo, il cambiamento climatico aumenta l’avanzata del deserto e riduce le aree coltivabili, ma ci sono terreni fertili in molti Paesi dell’Africa Subsahariana».

Quali sono le produzioni interessate dal fenomeno?

«L’obiettivo non è mai solo la terra in sé, ma tutte le risorse che ha al suo interno: acqua, fonti di energia, forza lavoro. Le coltivazioni sono sia per alimentazione umana che per la produzione di biocarburanti e di mangimi per bovini. Lo scopo è sempre quello produttivo, con trasferimento dei prodotti principalmente al mercato del Paese che “grabba”».

Tra i Paesi accaparratori non ci sono solo quelli con poca terra come il Giappone ma anche la grande Cina. Perché?

«La Cina dichiara di non avere terreno sufficiente per alimentare una popolazione che supera il miliardo e che ha cambiato il suo stile di vita in seguito al boom economico. La classe media e nuovi ricchi consumano di più e in modo nuovo. Ad esempio, si è verificato negli ultimi anni un incremento spasmodico nel consumo di carne (che ha un’impronta ecologica pesante): ecco perché servono molta più terra e molta più acqua».

Perché i governi dei Paesi sfruttati non interrompono questo fenomeno?

«Bisogna prendere in considerazione la condizione politico-economica di questi Paesi. Il land grabbing funziona dove ci sono governi instabili o dittatoriali, senza interesse per le programmazioni di lungo periodo e interessati all’arricchimento immediato. In un clima di miopia generale, e in assenza di leggi chiare, è difficile capire chi approfitta e chi no, o intervenire laddove si verifica un’ingiustizia, anche perché purtroppo il land grabbing non è un reato».

Anche l’Italia ne è interessata?

«A livello di governo e di scelte strategiche e politiche no: l’Italia ha un sistema agroalimentare molto importante che soddisfa sia la domanda interna che le necessità di export. Sono usciti da tempo, però, report e analisi di organizzazioni internazionali indipendenti per casi sospetti in Argentina e Africa australe da parte di diverse multinazionali italiane».

Il consumatore può accorgersi se il prodotto che acquista è frutto di land grabbing?

«In linea di massima è molto difficile. È complesso individuare quali prodotti ne sono “macchiati”, per via della poca chiarezza che sta dietro all’etichetta e al “made in”. L’unico modo per fare scelte più responsabili è l’informazione: bisogna interessarsi il più possibile all’origine dei prodotti e affidarsi a enti internazionali per le valutazioni. È ancora un fenomeno “nuovo”: servono dati certificati, osservazioni, numeri per portare avanti la battaglia. Grazie a queste attività di ricerca, recentemente Oxfam International ha individuato nella filiera produttiva di alcune aziende tracce di land grabbing e ha iniziato una forte campagna di pressione sui vertici aziendali per convincerli a combattere il fenomeno. Tra queste, Pepsi Cola. L’azienda ha da poco dichiarato che si “impegnerà ad adottare un piano per fermare l’accaparramento di terre nella propria filiera produttiva”».

Quali altri interventi vengono messi in campo?

«A livello internazionale ci sono moltissime organizzazioni, governative e non, che portano avanti campagne di pressione su governi e multinazionali al fine di far cessare il fenomeno e di vedere riconosciuti alle popolazioni locali i diritti di accesso alla terra e alle risorse. I livelli a cui si interviene sono tre: locale nei paesi “grabbati”, nazionale in quelli “grabbatori”, internazionale con le multinazionali. Coinvolgere le popolazioni in loco è fondamentale: devono diventare promotori del loro sviluppo capendo quali sono i loro diritti. Da più di dieci anni, in Uganda, Cesvi lavora per promuovere la sicurezza alimentare e il diritto al cibo. Da circa un anno siamo impegnati nella prevenzione puntando al riconoscimento del diritto al possedimento terriero dei piccoli agricoltori, coinvolgendo soprattutto le donne per sensibilizzarle su accesso, proprietà e utilizzo della terra. Il lavoro è lungo e complesso: bisogna agire nell’ottica di una demarcazione chiara dei confini e della collaborazione della popolazione con la polizia e la giustizia locale. I contadini devono sapere a chi rivolgersi se hanno subito un abuso e trovare chi li ascolti».

I media potrebbero fare da cassa di risonanza. Perché si parla così poco di land grabbing?

«Perché è un fenomeno complesso, tecnico e noto da pochi anni. È molto più semplice parlare di poveri che muoiono di fame e invitare a donare per fornire loro cibo, ma è solo potenziando la produzione agricola e rendendola più avanzata che si possono davvero cambiare le cose».

Silvia Nava

Fonte: leifoodie.it

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