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La religione che divide: chi è il più fedele? Esempi del mondo musulmano
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Quando ero in Egitto nell’estate del 2012, prendevo ogni giorno la metro fino alla delegazione dell’Unione Europea, quasi ad un’ora da casa mia. Mi svegliavo alle 6.30 ogni mattina e, come se non bastasse, arrivavo sempre sudato al lavoro a causa del caldo torrido del mese di giugno.
Nonostante questo, il clima non era la cosa più scomoda della mattina. Sulla linea che mi portava vicino alla piazza Tahrir vedevo ogni giorno qualcosa che mi sembrava inquietante: uomini, in tutto e per tutto come gli altri, ma con un taglio – quasi un buco – sulla fronte. Vedere sangue così presto di mattina era strano per me. Lungi dall’essere preoccupati per la loro fronte, loro sembravano rilassati: parlavano e scherzavano con una ferita visibile da tutti.
Dopo una piccola ricerca ho capito che questa ferita si chiama zebibah e ha un significato peculiare. Infatti, zebibah è una parola araba che indica un segno di tipo calloso, presente in modo evidente sulla fronte di alcuni fedeli musulmani, causato dal battere della fronte sul tappeto da preghiera. Wikipedia, grazie.
Ma io, con l’ingenuità del curioso ignorante continuavo a ripetere tra me e me: com’è possibile farsi una ferita tanto profonda con un tappeto? Non potevo credere che gli egiziani avessero una fisiologia diversa dalla mia! Un’amica mi ha spiegato il mistero: coloro che mostravano una zebibah così marcata significava che erano i credenti più ferventi in Egitto. La sofferenza era sinonimo della potenza del sentimento religioso. Nel caso in cui il tappeto non fosse stato sufficiente, i credenti si facevano da soli la ferita. Dopo la mia prima reazione di sorpresa mi sono ricordato delle manifestazioni per la Pasqua in Andalusia, quando avevo visto persone autoflagellarsi davanti alla folla. Alcuni amici americani invece portavano anelli, per fare vedere a tutti che non volevano avere relazioni sessuali prima del matrimonio. Mi sembrava che questa pratica non fosse così rara.
Lo studioso Olivier Roy, in un libro del 2009 sull’evoluzione delle pratiche religiose, sostiene che oggi si sta diffondendo una personalizzazione della religione attraverso segnali distintivi - chiamati da lui “religious markers” - che simbolizzano un credo più sincero e intenso di quello degli altri. Quindi, si osserva sociologicamente l’importanza della personalizzazione della fede, per mezzo di vestiti (il velo islamico), musica (il rock cristiano), cibo, ecc. Questo non implica necessariamente che gli individui non vogliano partecipare agli eventi collettivi. Ma mentre ci sono sempre più persone che partecipano alle messe del Papa, ce ne sono sempre meno nelle chiese la di domenica. L’esperienza emozionale sembra superare il quotidiano ripetitivo dell’istituzione religiosa – e tutti vogliono vivere un’esperienza ogni volta più forte della precedente e di quella degli altri.
Quello che scrive Olivier Roy sugli individui si potrebbe forse applicare agli Stati. Negli anni Novanta Samuel Hungtington ha scritto un famoso libro, incentrato sull’idea di “clash of civilizations”. Si tratta di un saggio (e non un lavoro accademico) in cui Huntington provava a dimostrare che i conflitti del ventunesimo secolo sarebbero provocati dalle differenti appartenenze a civiltà diverse (le quali sarebbero determinate anzitutto dalla religione). Nonostante abbia ricevuto diverse critiche, il libro ha assunto un valore profetico dopo l’11 Settembre. È questo il mio punto di partenza.
Se è impossibile capire e prevedere le azioni dei dirigenti musulmani, la letteratura delle relazioni internazionali esamina le loro azioni. Cosa hanno fatto dopo l’11 Settembre? Hanno creato con la Spagna e l’ONU un ‘dialogo tra le civiltà’. Che però non ha funzionato. Il dialogo all’interno dell’ONU non ha affatto unito i paesi musulmani. Al contrario: mentre tutti i dirigenti del Medio Oriente parlavano della religione musulmana e promuovevano uno stretto legame tra le “civiltà”, la realtà istituzionale mostrava un’altra faccia della religione unitaria. Chi doveva parlare per la “civiltà”? In altre parole, chi era il migliore rappresentante del mondo musulmano? Senza volerlo il dialogo ha dato maggior ruolo all’interlocutore occidentale, mentre, per esempio, i paesi del Golfo Persico (meglio dire arabico in questo contesto) si sono ritrovati divisi.
Per esempio ho potuto partecipare in Oman nel 2014 a un “trek”, con rappresentanti del mondo musulmano e dell’Occidente finanziato dal Governo dell’Oman, che trattava dei pregiudizi del mondo occidentale verso l’Islam. Spesso era promossa la tolleranza nei confronti dello stato di Oman e del suo leader, il Sultano Qaboos, nel dialogo con gli Stati Uniti prima che all’interno del mondo musulmano. Il secondo esempio è la creazione, da parte dell’Arabia Saudita, del King Abdullah bin Abdulaziz International Centre for Interreligious and Intercultural Dialogue con sede a Vienna. È interessante vedere che benché sia una piattaforma per il dialogo interreligioso, non vi sono rappresentanti degli altri paesi del Golfo. Ci lavorano persone dell’Australia – ma non di Qatar, Oman oppure dello Yemen.
Quindi, sembra che la religione divida. Dallo Zebibah al dialogo tra le “civiltà”, c’é in ogni caso una volontà (sociale, religiosa, economica: qualunque essa sia non è qui che verrà affrontata) di distinzione tra i credenti.
Martin Lestra