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La denuncia che fa tremare Facebook
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Foto: Unsplash.com
Tempi bui per l’ecosistema Facebook. Stavolta non si tratta della decrescita del social media per eccellenza, quello con l’inconfondibile pollice all’insù. Parliamo della deflagrante fuga di notizie che rimette in discussione l’intero sistema governato da Mark Zuckerberg (Facebook, e con lui Messenger, Instagram, WhatsApp). Forse il ceffone più sonoro, dopo quello ricevuto dallo scandalo Cambridge Analytica sulla manipolazione degli elettori.
A complicare la situazione, martedì 4 ottobre il down più lungo da quello del 2019: le piattaforme più frequentate al mondo sono diventate inaccessibili, come se fossero del tutto scomparse dal web. È successo alle 17.30 circa, ora italiana, ed è andato avanti fino a mezzanotte. L’accaduto sarebbe imputabile ad un problema tecnico di configurazione, che avrebbe bloccato non solo l’accesso agli utenti ma anche agli stessi dipendenti di Menlo Park (quartier generale di Facebook), compresi – si dice – i siti e le mail interne: motivo per cui la risoluzione ha richiesto tanto tempo. Un blackout che è valso parecchi miliardi di dollari a Wall Street. Ma l’ecosistema in tilt in tutto il mondo e per diverse ore, causando non pochi disagi, non è l’unico grattacapo per Facebook. Gli occhi rimangono puntati su un’altra vicenda scottante: il blackout precede l’audizione al Congresso americano dell’ingegnera informatica – ed ex dipendente Facebook – Frances Haugen.
In inglese si usa il termine whistleblower per chiamare la fonte che rivela informazioni segrete relative ad una compagnia. L’informatrice è uscita dall’anonimato e ha mostrato il suo volto al programma televisivo 60 Minutes della CBS, dov’è stata intervistata (qui un estratto). Il nodo della vicenda sono gli incartamenti passati al Wall Street Journal, diventati oggetto dell’inchiesta giornalistica Facebook Files. La 37enne americana, originaria dell’Iowa con un master ad Harvard e un passato in altri giganti del tech, da Google a Pinterest, era passata a Facebook nel 2019. La donna ha spiegato che, in seguito alla perdita di una persona cara a causa del complottismo, aveva espressamente richiesto di essere assunta nell’ambito della lotta alla disinformazione. Così è entrata a far parte di un team chiamato Civic Integrity il cui compito era quello di vigilare e contrastare i contenuti pericolosi per le elezioni. L’esperienza le ha dato la possibilità di accedere a discussioni online fra impiegati, documenti e ricerche interne che l’hanno convinta della necessità di svelare le storture del colosso californiano.
La donna ha iniziato a copiare e inviare migliaia di pagine di documenti a WSJ rivelando un sistema che, nell’intento di privilegiare il proprio (astronomico) profitto anziché il bene degli utenti, incentiverebbe di fatto la diffusione dell’odio, contenuti divisivi e polarizzanti. Poco dopo le presidenziali, il Civic Integrity team è stato sciolto dato che la sua esistenza non era più ritenuta necessaria. Solo qualche settimana dopo, l’assalto a Capitol Hill.
Il 2018 è stato un anno di svolta per Facebook: Zuckerberg annuncia un cambio di algoritmo che ha l’obiettivo di incentivare le cosiddette meaningful social interaction, cioè le interazioni sociali di valore fra persone che sono vicine, che hanno interessi in comune e che postano contenuti significativi per altri. L’algoritmo sostanzialmente calcola una classifica di ciò che, sulla base di diversi fattori (il nostro profilo, le amicizie, i like, i personaggi seguiti, etc.), potrebbe interessarci di più. Questa operazione si concretizza nel News Feed, la pagina iniziale dove si visualizzano i post recenti più pertinenti. Quindi quello che vediamo su Facebook o Instagram non è affatto casuale, anzi, è scelto a tavolino sulla base dei dati che, più o meno consapevolmente, decidiamo di “devolvere” all’algoritmo. E fin qui niente di nuovo.
L’altra prerogativa connessa e che determina il funzionamento dell’algoritmo è la creazione di engagement, cioè il tempo e le interazioni che un contenuto può produrre, seguendo la cosiddetta “economia dell’attenzione”. Gli inserzionisti infatti più che pagare per lo spazio ottenuto sul social, sostanzialmente pagano il tempo degli utenti che riusciranno a conquistarsi. Più un messaggio riceve like, commenti e condivisioni, più crescono le interazioni su un messaggio, più il contenuto è (con un tecnicismo) ottimizzato per l’engagement, più quel contenuto viene promosso e riceve visibilità. E anche questa, penserete voi, non è la scoperta del secolo.
Ebbene, i documenti fuoriusciti grazie alla Haugen rivelerebbero che Facebook avrebbe scientemente dato spazio, o comunque non ostacolato la rabbia degli utenti.
Risultato: i contenuti d’odio e violenza, i messaggi divisivi e la polarizzazione delle discussioni sarebbero stati incentivati. Se siete degli users abituali converrete che il dubbio lo avevamo tutti da prima. Ma un conto sono le perplessità degli osservatori esterni, un conto è la denuncia di chi è stato dentro.
Il perché è abbastanza ovvio: questo tipo di contenuti generano un vortice di engagement molto più alto ed efficace di altri. E più la gente sta sul social, più Facebook guadagna. Insomma, la rabbia genera profitto e Facebook avrebbe, consapevolmente, messo davanti il suo profitto alla tutela del bene della community o la sicurezza degli utenti.
Inoltre Facebook favorirebbe le élite, facendo qualche eccezione per i profili di alto livello. Un trattamento speciale per celebrità e personalità di vario genere. Altro che equality. Si tratterebbe di un programma finora segreto chiamato XCheck e coinvolgerebbe 5,8 milioni di utenti sostanzialmente immuni alle regole di Facebook, o immuni alla sua censura.
Non solo. Uno dei risultati più inquietanti di una ricerca interna fuoriuscita dal campus californiano sarebbe quella relativa ai danni che Instagram potrebbe provocare sugli adolescenti e, in particolare, sulle giovanissime utenti. Facebook avrebbe saputo della tossicità di Instagram, i cui effetti riguarderebbero la sfera della salute mentale: Instagram avrebbe la responsabilità di trasmettere una percezione distorta del corpo, arrivando a nutrire lo sviluppo di disordini alimentari, angoscia e depressione.
Il WSJ commenta che Facebook avrebbe fatto ben poco per arginare questo disastro e avrebbe invece minimizzato la discussione pubblica a riguardo. Oggi è proprio Instagram a trainare tutto l’ecosistema. L’utenza delle giovani generazioni – che probabilmente guardano a Facebook come si guardano i resti di un dinosauro – è quella che ben alimenta il traffico miliardario di Instagram. E che gli può garantire un futuro. Traffico oggi conteso dal competitorasiatico Tik Tok. La domanda è: Zuckerberg rinuncerà al progetto di creare un Instagram Kids per under 13? La proposta era stata comunque già bocciata dal Congresso americano.
Le risposte di Facebook arrivano direttamente dalla voce dei più importanti manager aziendali. In un post sul blog il gigante americano ha scritto che l’inchiesta giornalistica relativa alle conseguenze negative sugli adolescenti sarebbe inaccurata, perché decontestualizzerebbe una ricerca interna destinata a persone consapevoli della sua limitatezza. Secondo la vice-presidente Pratiti Raychoudhury, il report del WSJ fornirebbe una visione fuorviante perché avrebbe omesso le risposte di coloro che avevano dichiarato un impatto positivo (o nessun impatto) dei social sulle loro vite. Facebook ha tenuto a puntualizzare di avere investito molte risorse per censurare contenuti pericolosi e sostenere coloro che lottano contro varie problematiche. L’articolo ha preceduto l’apparizione della capo della sicurezza globale di Facebook Antigone Davis davanti alla sub-commissione per il commercio del Senato americano giovedì 30 settembre. In un altro post del 30 settembre, il vice-presidente Nick Clegg aveva risposto a WSJ, imputando il giornale di avere estrapolato singole citazioni da contesti più ampi, «una visione deliberatamente parziale», facendo assumere a quelle citazioni un significato diverso. Clegg aggiunge che una ricerca non è esaustiva poiché a problemi complessi non esiste una soluzione facile, così Facebook intende continuare ad investire e non si nasconderebbe dalle critiche e al controllo, ma rifiutano quella che secondo loro sarebbe stata una “caratterizzazione”.
Infine la replica del CEO Zuckerberg che, in una lettera ai dipendenti, definisce le accuse illogiche, poiché Facebook fa soldi con gli inserzionisti che chiedono di essere posizionati lontano da contenuti negativi, che generano rabbia o depressione.
L’esito della vicenda è tutt’altro che chiuso, a partire dal fatto che martedì 5 ottobre Frances Haugen è stata sentita in audizione dal panel per la protezione dei consumatori in Senato. Haugen ha sottolineato l’importanza che i social vengano guidati dall’intelligenza umana anziché da quella artificiale, affinché sia il senso critico umano a gestire le interazioni digitali e non un algoritmo. Haugen ha sostenuto la necessità che il Congresso americano intervenga, legiferando e mettendo regole che siano in grado di garantire e tutelare la sicurezza dei suoi cittadini.
Maddalena D'Aquilio

Laureata in filosofia all'Università di Trento, sono un'avida lettrice e una ricercatrice di storie da ascoltare e da raccontare. Viaggiatrice indomita, sono sempre "sospesa fra voglie alternate di andare e restare" (come cantava Guccini), così appena posso metto insieme la mia piccola valigia e parto… finora ho viaggiato in Europa e in America Latina e ho vissuto a Malta, Albania e Australia, ma non vedo l'ora di scoprire nuove terre e nuove culture. Amo la diversità in tutte le sue forme. Scrivere è la mia passione e quando lo faccio vado a dormire soddisfatta. Così scrivo sempre e a proposito di tutto. Nel resto del tempo faccio workout e cerco di stare nella natura il più possibile. Odio le ingiustizie e sogno un futuro green.