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La Repubblica Democratica del Congo tra sviluppo e implosione
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I campi profughi presenti nel Nord Kivu “costituiscono sacche di insicurezza e un nascondiglio per le armi” secondo il governatore della provincia orientale della Repubblica Democratica del Congo, Julien Paluku, che lo scorso 3 dicembre ha predisposto la loro chiusura. Una decisione del tutto improvvisa che coinvolge 60 campi che ospitano circa 210mila sfollati. Mentre ad oggi risulta chiuso solamente il campo di Kiwanja, un concentramento di 2.300 persone a nord della capitale provinciale Goma, a dimostrazione della volontà di coordinare il lavoro con Agenzie Onu e ong impegnate sul campo il governatore Palunku e Moustapha Soumare, il coordinatore umanitario delle Nazioni Unite in RDC, hanno convenuto un programma consensuale e progressivo. Perplessità giungono intanto dall’Agenzia ONU per i Rifugiati che amministra quei campi: la portavoce dell’Unhcr sul terreno, Celine Schmitt, è intervenuta sulla decisione delle autorità del Nord Kivu parlando della necessità che il rimpatrio degli sfollati sia volontario e constatando che il miglioramento della sicurezza in alcune parti della Provincia stava consentendo lo spontaneo ritorno di migliaia di profughi alle loro case. Tuttavia la Schmitt ha incoraggiato un intervento a più ampio respiro per meglio affrontare le ragioni alla base dell’esistenza dei campi per sfollati: solo restituendo la pace all’intera Provincia, ci sarebbe la garanzia dell’inutilità dei campi profughi.
Se le autorità affermano che la pace è tornata, le agenzie di stampa confermano l’attività nel Nord Kivu di decine di gruppi armati locali e stranieri che alimentano il banditismo e la criminalità. Da tre mesi inoltre si susseguono attacchi armati senza tregua, secondo fonti miliari Onu e congolesi attribuibili alla milizia musulmana ugandese Alleanza delle forze democratiche (Adf), che potrebbe agire in accordo con altre. Da ottobre nel territorio intorno alla città di Beni ci sono stati più di 250 brutali omicidi a colpi di machete e asce, e la situazione appare sempre più preoccupante con il costante sopraggiungere di notizie relative a nuovi massacri da parte di gruppi armati: tra il 7 e l’8 dicembre sono state uccise 52 persone nei villaggi vicino Oicha, a est di Beni, una settimana dopo altri 19 omicidi nella stessa zona, e le violenze sono giunte anche a nord, nella Provincia Orientale del Congo, dove sono state uccise 7 persone e incendiati i villaggi di Iziro, Mapasana e Meliota, a circa 25 Km dal confine col North Kivu. Il numero degli sfollati sembra dunque destinato ad aumentare: sono già 88mila le famiglie divenute profughe a seguito di questi interventi armati, un dato che ha indotto l’Unhcr a lanciare un appello per facilitare gli aiuti umanitari fornendo beni di prima necessità ma anche servizi sanitari e scolastici in un momento in cui il deteriorarsi degli standard di sicurezza ha indotto a una sospensione della maggior parte dei progetti di assistenza.
Proprio la volontà di interrompere la politica dell’assistenza, intesa come dipendenza, è alla base della decisione del governatore del Nord Kivu che, riferendosi alla fine della milizia M23, ha dichiarato che “è urgente che i campi sono chiusi, altrimenti si rischia di promuovere una cultura di mendicanti felici di ottenere i semi di soia, anche se la situazione è completamente cambiata”. A suo avviso la chiusura dei campi profughi, contribuendo a non dare l’impressione di una provincia in guerra, potrebbe attrarre investitori stranieri. Dopo lo smantellamento della milizia ribelle M23 nel novembre 2013, che aveva contribuito di gran lunga ad accrescere i numeri degli ospiti nei campi profughi, lo scorso gennaio l’esercito congolese e le forze di pace delle Nazioni Unite (MONUSCO, UN Organization Stabilization Mission in the Democratic Republic of Congo) hanno lanciato una nuova offensiva che mirava a garantire maggiore sicurezza nell’intera Provincia.
Il problema della sicurezza in Congo continua ad affiancarsi a quello della debolezza politica del governo centrale di Kinshasa. Dall’inizio dell’anno è aumentata la “febbre elettorale” nel Paese dinanzi all’intenzione espressa dall’attuale presidente Joseph Kabila, al suo secondo mandato e costituzionalmente l’ultimo possibile, di candidarsi alle elezioni previste per la fine del 2016. I suoi piani politici, e soprattutto giuridici, per rendere reale tale aspirazione hanno iniziato a coinvolgere l’intera macchina statale, a detrimento delle forze da spendere per dare soluzione a molteplici questioni urgenti che attanagliano il Paese, di cui lo spettro della malnutrizione, anche nella capitale Kinshasa, è solo un tassello. Intanto anche le opposizioni si mobilitano, esprimendo a Kabila la propria avversione a quell’idea presidenziale del Congo come di una “Repubblica delle banane” e dichiarando di voler dare battaglia in parlamento a qualsiasi azione di revisione costituzionale di Kabila con una raccolta firme e con l’organizzazione di eventi attraverso l’ampio coinvolgimento dell’opinione pubblica e della stampa.
Di certo sulle scelte politiche e strategiche di Kabila e dei suoi avversari non potranno che pesare le questioni economiche, con una previsione di crescita del 10,5% secondo il Fondo Monetario Internazionale (guidato dal settore dell’estrazione mineraria che costituisce il 15% del PIL del Congo). La pace nella difficile Provincia del Nord Kivu, una delle più ricche del Paese, non potrebbe che contribuire a far sfruttare il suo vasto potenziale inutilizzato, fornendo assi nella manica a fine elettorali allo stesso presidente Kabila.