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La Cina come nuova meta
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All’epoca dei Gesuiti approdare nei porti cinesi non era una missione semplice. Nonostante siano passati quattrocento anni e la rotta di oggi sia molto più facile da percorre, non lo è il fatto di “farcela”, di costruire una vita fatta di lavoro, affetti e svago.
Nella grande nazione d’Oriente, ieri come oggi, le persone non arrivavano con due scarpe senza suole, ma con stivali sostenuti e qualche zainetto pieno di soldi. Fin dall’Ottocento gli italiani in Cina si sono sempre distinti per essere persone acculturate e benestanti, uomini e donne con il bisogno di raggiungere altre vette dove poter declinare le loro spiccate potenzialità. Certo, Shanghai non ospitava cime mozzafiato, ma i cambiamenti a livello urbano, sia economici che culturali, da fine Ottocento a oggi, sono sempre stati un’allettante attrazione per coloro chiamati a giocare in casa cinese.
Benché il primo straniero ad aver messo piede a Shanghai sia stato un italiano, il gesuita Lazzaro Cattaneo, l’Italia che vive in Cina non è fra le nazioni europee la più numerosa. Piuttosto di interpretare statistiche che differenziano le razze però, preferisco leggere la realtà preoccupandomi invece di comprenderla osservando la scelta che trascende tutte le altre – economiche, affettive, culturali – di chi decide di vivere in un altro luogo rispetto a quello in cui l’esistenza l’ha destinato.
Chi ha vissuto all’estero solitamente, è contento se anche i figli provano una simile esperienza e chi non ha avuto modo di spostarsi spinge la prole a farlo. Nella maggior parte delle ipotesi, il denaro è uno strumento, la guerra una causa, la carriera una speranza. Ma ogni partenza nasconde l’innato bisogno umano di scoprire cosa c’è dietro ogni curva, o al di là di qualsiasi confine.
Personalmente conosco la vita di Shanghai. Una metropoli che in dieci anni si è trasformata: posso dire di aver visto quattro città diverse in un decennio. In Europa, attualmente, un simile avvenimento è impossibile da vedere, ma al di là del fascino che possa suscitare, vivere a Shanghai è difficile così come nelle altre zone della repubblica popolare meno occidentalizzate.
Ambientarsi in Cina non è semplice come in Australia, o in California. Non perché essa sia una nazione poco accogliente, ma perché è un paese dove per un italiano è difficile sentirsi accolto; e sono due cose ben diverse.
Dieci anni fa per trovare un’occupazione bastava avere una conoscenza linguistica media, un titolo di studio e un pizzico d’incoscienza, ma oggi non è più così. Ho incontrato laureati con specializzazioni ottenute nelle migliori università europee e disposti a non recepire uno stipendio in cambio di iniziare una carriera. Un po’ come sta succedendo nel “nostro” mercato del lavoro, ma a differenza degli italiani in patria, chi è in Cina ha maggior fiducia: sa che prima o poi il valore del suo merito verrà ripagato. Una fede che qui è venuta a mancare per via di un provincialismo – sempre più accentuato – che non riesce a trattenere le speranze delle persone.
Vicino a questa categoria invece, quella di donne e uomini (fra i trenta e i quarant’anni) mandati nella seconda economia più potente al mondo da grandi compagnie e che vantano stipendi molto alti. Le possibilità per crescere attraverso un’esperienza professionale sono molte, sostengono, ma per “sopravvivere” vengono richieste due qualità: umiltà e pragmatismo. Bisogna alzarsi dopo ogni caduta e imparare a farlo alla “cinese”: adattandosi immediatamente alla nuova situazione, per di più in un paese che non è accogliente né cordiale con la concorrenza che porta l’etichetta italiana. Questo a detta anche di numerosi artisti, come pittori, musicisti, fotografi, architetti e cantanti che stanno adattando il made in Italy, di cui sono naturalmente in possesso, con le esigenze cinesi che, anche in campo artistico, si differenziano nettamente dalle nostre.
Come negli anni ‘30, quando la Little Italy di Shanghai animata dal diplomatico savoir faire di Edda Mussolini era composta da persone benestanti e colte, anche i connazionali di oggi sono giovani con una laurea e un’occupazione. Nella metropoli i residenti sono tre mila, e se ne contano quasi sette mila in tutta la repubblica cinese.
La storia in questo caso è cambiata in quantità: gli italiani in Cina stanno portando avanti la missione iniziata dai gesuiti nel Seicento, succeduti dai diplomatici dell’Ottocento e dagli imprenditori d’inizio Novecento.
Alla fine di tutto questo fare però, ogni sforzo verso qualsiasi meta è accomunato dall’innato bisogno di sentirsi uguali a qualcuno di diverso. L’uomo, da sempre, ha la necessità di confrontarsi con un pensato differente da quello in cui è cresciuto, di allontanarsi dalla propria cultura e scoprire i valori di altre per, finalmente, un giorno accorgersi che la propria tradizione è esattamente come tutte: una delle tante declinazioni della comune origine di ogni essere vivente.