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L’obsolescenza programmata e la lavatrice di mia nonna
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Mia nonna non si vantava spesso. Ma davanti all’euforia tecnologica delle nuove generazioni, ai nuovi modelli di un qualsiasi aggeggio elettronico che spesso in pochi anni, se non mesi, sostituiva il vecchio ormai sorpassato o il più delle volte scassato, sentenziava con un vanitoso orgoglio: “io la mia macchina per il bucato non l’ho mai dovuta cambiare!”. Era vero. La sua “macchina per il bucato”, comprata alla fine degli anni ’70, è sopravvissuta a mia nonna e ha continuato a lavare per circa 40'anni, consumando forse più acqua ed energia delle moderne lavatrici, ma lo ha fatto sempre senza rompersi, almeno mai in modo irreparabile e definitivo. Non mi stupisce quindi che il Comitato economico e sociale europeo (Cese) presentando lo scorso 29 marzo il nuovo studio “Les effets de l’affichage de la durée d’utilisation des produits sur les consommateurs”, redatto da un consorzio di ricerca composto da Sircome, Università di Bretagne-Sud e Università della Boemia del Sud, abbia stabilito un legame tra l’etichettatura sulla durata di vita dei prodotti e il comportamento dei consumatori evidenziando che “gli europei condannano vivamente l’obsolescenza programmata e vorrebbero dei prodotti garantiti di maggiore durata”.
Non occorreva uno studio direte voi, bastava mia nonna ho pensato io, tuttavia ben venga anche lo studio del Cese secondo il quale questo prevedibile fenomeno è molto netto: “La progressione delle vendite dei prodotti etichettati come durevoli è spettacolare: ad esempio, il 128% per le valige e il 70% per le stampanti” e l’importanza del carattere durevole del prodotto agli occhi dei consumatorio è proporzionale all’ammontare che sono pronti a sborsare. Lo studio è stato realizzato in Belgio, Repubblica Ceca, Francia, Spagna e Olanda ed ha coinvolto circa 3.000 persone, analizzando le intenzioni di acquisto dei consumatori, l’etichettatura riguardante la durata di vita dei prodotti e le diverse etichettature contenenti questo tipo di informazioni. Come si poteva immaginare “Il 90% dei partecipanti si è detto pronto a pagare di più per avere una lavastoviglie con una scadenza superiore ai due anni: in media 102 euro in più per questo tipo di garanzia per una lavastoviglie nella fascia di prezzo tra 300 e 500 euro”.
A quanto pare, secondo l’indagine del Cese, i francesi sono i più sensibili alle informazioni sulla durata dei prodotti, visto che le vendite aumentano di ben il 118% in presenza di etichette che contengono questo tipo di informazioni, molto più dei campioni belga e olandese (+45%), ceco (+39%) e spagnolo (+32%). L’80% dei partecipanti allo studio pensano poi che siano i produttori ad avere la maggiore responsabilità della durata dei prodotti. La pensa così anche il 95% del campione in Repubblica Ceca, il 91% in Francia, l’81,8% in Belgio e in Olanda e il 75,1% in Spagna. Ma i risultati mettono ben in evidenza anche la dimensione sociale dell’obsolescenza programmata ricordandoci “che il prezzo che i consumatori sono disposti a pagare per un prodotto più durevole aumenta insieme al Pil del Paese di residenza” e che “sono le persone a basso reddito quelle che la subiscono di più, perché acquistano spesso prodotti meno costosi e meno affidabili”.
Secondo Thierry Libaert, relatore del rapporto Cese, “Quel che dimostra in maniera indiscutibile questo primo studio europeo, è che il problema dell’obsolescenza programmata non risulta tanto da una programmazione calcolata dell’obsolescenza, ma piuttosto da una mancanza di informazione del consumatore sulla durata di vita dei prodotti. Rimettere il consumatore al centro del dispositivo, migliorando l’informazione sui prodotti che acquista, è un’esigenza economica, sociale ed ambientale; è anche una grossa leva per una fiducia ritrovata nelle imprese. Introdurre delle fragilità in un prodotto ed offrire servizi non affidabili è un atteggiamento condannabile, ma ancora troppo diffuso”. Per questo per Mathieu Jahnich, amministratore delegato di Sircome oggi “L’opzione ottimale consisterebbe nel menzionare sull’imballaggio del prodotto delle informazioni dettagliate sulla sua durata di vita in assoluto” premiando sia le marche più affidabili, che l’ambiente. La menzione esplicita della durata di vita minima garantita di un prodotto, infatti, non solo può contribuire a rafforzare la fiducia dei consumatori di fronte alle imprese, ma rendere più consapevole il passaggio da una società dello spreco ad una società più consapevole e sostenibile.
La Cese chiede ora alla Commissione europea di elaborare al più presto una legislazione Ue sull’obsolescenza programmata capace almeno di “imporre ai produttori l’assunzione dei costi del riciclaggio dei prodotti la cui durata di vita sia inferiore ai 5 anni” e incoraggia i cittadini ad agire “per iniziare un cambiamento di mentalità anche del consumatore” e forse tornare a pensarla come i nostri nonni o come quello, per me indimenticabile, raccontato in un Buongiorno scritto nel 2013 da Massimo Gramellini su La Stampa e che riporto qui:
Un amico racconta che qualche tempo dopo la morte del nonno ha dovuto liberare la cantina del suo appartamento. Tra le altre cose ha trovato uno scatolone pieno di lampadine fulminate. Era accompagnato da un biglietto scritto a mano: «Casomai in futuro inventassero un sistema per ripararle». Dietro certi aneddoti affiora un mondo. Pare di vederlo, quell’uomo, mentre accatasta oggetti inutilizzabili in un angolo della cantina con la speranza segreta che un giorno possano servire ancora: se non più a lui, a qualcuno della sua famiglia. C’è chi interpreterà il gesto del nonno come un rifiuto del consumismo o un afflato di tirchieria. Io al contrario vi sento la fiducia nel futuro. È lei che abbiamo perso, è lei che ci sorride nostalgica da questi quadretti del passato che ammorbidiscono i cuori perché sembrano celare una risposta possibile alle angosce presenti. L’Italia è uscita dalle macerie di una guerra mondiale grazie a persone che ragionavano così. Statisti che inseguivano obiettivi e non sondaggi, imprenditori che rinunciavano agli utili per tradurli in investimenti, banchieri che prestavano denaro senza passare subito all’incasso, famiglie che risparmiavano sui cappotti dei figli ma non sui loro studi. Milioni di appassionati della vita che coniugavano i verbi al futuro, pur sapendo che non lo avrebbero goduto ma soltanto propiziato. A chi, seduto su nuove macerie, si chiede da dove ripartire, mi verrebbe da indicare quello scatolone di lampadine bruciate.
Alessandro Graziadei

Sono Alessandro, dal 1975 "sto" e "vado" come molti, ma attualmente "sto". Pubblicista, iscritto all'Ordine dei giornalisti dal 2009 e caporedattore per il portale Unimondo.org dal 2010, per anni andavo da Trento a Bologna, pendolare universitario, fino ad una laurea in storia contemporanea e da Trento a Rovereto, sempre a/r, dove imparavo la teoria della cooperazione allo sviluppo e della comunicazione con i corsi dell'Università della Pace e dei Popoli. Recidivo replicavo con un diploma in comunicazione e sviluppo del VIS tra Trento e Roma. In mezzo qualche esperienza di cooperazione internazionale e numerosi voli in America Latina. Ora a malincuore stanziale faccio viaggiare la mente aspettando le ferie per far muovere il resto di me. Sempre in lotta con la mia impronta ecologica, se posso vado a piedi (preferibilmente di corsa), vesto Patagonia, ”non mangio niente che abbia dei genitori", leggo e scrivo come molti soprattutto di ambiente, animali, diritti, doveri e “presunte sostenibilità”. Una mattina di maggio del 2015 mi hanno consegnato il premio giornalistico nazionale della Federazione Italiana Associazioni Donatori di Sangue “Isabella Sturvi” finalizzato alla promozione del giornalismo sociale.