L’inferno dei profughi nelle paradisiache isole greche

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Mar Egeo, isola di Simi. Architettura neoclassica e colori pastello che hanno decretato la fortuna in termini turistici di questa isola poverissima che, fino a qualche anno fa, poteva unicamente vantare il privilegio di conservare le reliquie dell’Arcangelo Michele nel monastero ortodosso ad egli dedicato, meta di pellegrinaggio e profonda devozione. Una fazzoletto di terra a 50 Km circa a nord-ovest di Rodi, e ad appena 10 Km dalle coste turche, che si intravedono chiaramente all’orizzonte. È su quelle coste che molti soldati italiani di stanza nel Dodecaneso durante la seconda guerra mondiale cercarono di scampare alla cattura dinanzi alla violenta offensiva lanciata dell’ex alleato tedesco, dopo l’armistizio dell’8 settembre.

È un percorso inverso in direzione delle coste greche quello intrapreso negli ultimi anni dai molti, civili in questo caso, che tentano di sfuggire da guerre e persecuzioni che divampano “a casa loro” e mettersi al sicuro. Siriani, afghani, ma anche maghrebini e africani sub sahariani che via mare, da diverse località turche e con il passaggio su imbarcazioni di fortuna pagate a caro prezzo agli scafisti, percorrono quel breve tratto di mare per trovarsi al sicuro, in territorio europeo. Paura, coraggio e tanta disperazione si respira da mesi nell’Egeo, specie nelle isole collocate più a oriente: Rodi, Simi, ma anche Kos, Leros, Lesbos, Gavdos, Chios e Samos, le principali destinazioni dei profughi. Per tutti solo una prima tappa per poi proseguire verso Atene e da lì ancora verso ovest per imbarcarsi dai porti di Patrasso e Igoumenitsa verso l’Italia, e poi per molti ancora procedere verso l’Europa centrale o del nord, là dove lavorare e integrarsi sembra possibile. Al pari di Lampedusa, si registrano naufragi e vittime senza nome, quelle dei barconi carichi di migranti, come è successo ad aprile nelle acque a largo di Rodi, o anche dei passeggeri nascosti a bordo dei traghetti che solcano l’Adriatico, in sala macchine, nei container o in altri fortuiti pertugi offerti dalla stiva.  

Da quando nel 2012 il confine tra la Turchia e la Grecia segnato dal fiume Evros è stato letteralmente fortificato, all’altezza della cittadina di Orestiada, da una barriera di rete e filo spinato di 12,5 Km, rafforzata da campi minati e da numerosi posti di blocco di greci e turchi, il passaggio dei migranti si è interrotto, o meglio, si è spostato più a sud, verso le coste della Turchia a poche miglia dalle isole dell’Egeo. Comprensibilmente, nessuna fortificazione può e potrà fermare la disperazione di chi fugge da una morte certa.

A portare l’attenzione su questi sbarchi è Medici Senza Frontiere che denuncia l’ancora mancata messa in campo da parte di Atene di strumenti di accoglienza a fronte di un notevole aumento dei flussi di migranti, il 145% in più rispetto al gennaio dello scorso anno. Se nell’intero 2014 gli arrivi erano stati 77.000, dei quali due terzi siriani, in aprile, nei soli giorni della Pasqua ortodossa, sono giunti nel Dodecaneso 1.257 migranti da Siria, Pakistan, Afghanistan e Bangladesh, di cui la metà sull’isola di Lesbos. “Vivono in condizioni disumane, manca acqua potabile, le latrine sono fuori da ogni standard comunitario. Sono persone in fuga da conflitti, traumi, e arrivati qui dentro, anziché trovare sostegno, subiscono ulteriore stress psicologico. Molti di loro tentano anche il suicidio”. Parole di Manu Moncada, coordinatore di MSF per le operazioni di migrazione che segnala a gran voce una situazione “al limite della dignità umana”. Dal 2008 la ong sta fornendo servizi medici e umanitari urgenti ai migranti sbarcati sulle coste greche, come in altre realtà del Mediterraneo, a cui ha dedicato la campagna di sensibilizzazione e fundraising “Milioni di Passi, quelli di chi deve lasciare in tutta fretta il proprio Paese, il luogo di nascita, la casa per l’incubo del tutto fondato di essere uccisi e per il sogno di giungere ad un posto sicuro dove poter vivere.

Nella situazione economica e sociale disastrosa in cui da anni verte la Grecia e dinanzi alla crescita dei flussi in ingresso attraverso le acque dell’Egeo, di certo sarebbe una possibile soluzione la revisione di quella norma del Regolamento di Dublino, adottato dall’UE nel giugno 2013, che prevede che la domanda di asilo sia esaminata dallo Stato membro dove il richiedente ha fatto ingresso nell’Unione. Un sistema che da tempo ha ricevuto le critiche dell’Alto Commissariato ONU per i Rifugiati (UNHCR) e del Consiglio Europeo per i Rifugiati perché incapace di fornire una protezione equa ed efficiente ai richiedenti asilo, costretti ad aspettare mesi, se non anni, prima che le loro richieste siano esaminate e bloccati all’interno di quello stesso Paese. Anche in considerazione dei criteri individuati dalla Commissione Europea nella recente proposta di definire quote di accoglienza delle domande di asilo, ossia numero di abitanti del Paese UE, Pil, numero di profughi già presenti nel Paese e tasso di disoccupazione, alla Grecia spetterebbero appena l’1,61% dei richiedenti provenienti dai campi di Paesi terzi e l’1,9% di quelli già presenti sul suolo europeo. Non si tratta di uno “regalo” fatto all’amministrazione Tsipras, bensì di una rideterminazione che darebbe la possibilità all’Unione Europea di gestire con efficienza, e soprattutto con umanità e in nome di quei valori alla base dell’istituzione, la questione dell’accoglienza dei flussi migratori. Non solo numeri, ma persone, storie, vite.

Miriam Rossi

Miriam Rossi (Viterbo, 1981). Dottoressa di ricerca in Storia delle Relazioni e delle Organizzazioni Internazionali, è esperta di diritti umani, ONU e politica internazionale. Dopo 10 anni nel mondo della ricerca e altrettanti nel settore della cooperazione internazionale (e aver imparato a fare formazione, progettazione e comunicazione), attualmente opera all'interno dell'Università degli studi di Trento per il più ampio trasferimento della conoscenza e del sapere scientifico.

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