Kosovo: prima e oltre l'indipendenza

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Sono numerosi i commenti alla dichiarazione di indipendenza del Kosovo. L'Osservatorio sui Balcani dedica all'evento uno speciale dossier con approfondimenti e analisi e, oggi, un editoriale dal titolo "Logica stato-nazione" nel quale sottolinea come l'Osservatorio aveva proposto di "imboccare una strada diversa che mettesse al centro la prospettiva europea con cui rispondere alle istanze di entrambe le parti, la sovranità territoriale e le radici culturali dell'identità nazionale serba da un lato, il diritto all'autodeterminazione della maggioranza kosovaro-albanese dall'altro".
Sul sito di Peacelink, Carlo Gubitosa con un lungo e dettagliato articolo dal titolo "Kossovo: storia di una repubblica fondata sulla guerra" ricostruisce la vicenda e il ruolo dell'Italia.
Nel contributo che riportiamo qui di seguito, che appare anche sul settimanale Vita, Michele Nardelli dell'Osservatorio sui Balcani mette in risalto il ruolo dell'Europa nella vicenda della ex⭀-Jugoslavia.

Kosovo: l'ennesima occasione perduta per l'Europa

"Il nostro timore è che i leader europei abbiano perso il coraggio di mettere in pratica l'impegno che presero nel 2003 di portare la regione [dei Balcani] nell'Unione Europea. Allarmati dai risultati dei referendum in Francia e nei Paesi Bassi sulla ratifica della Costituzione europea, i leader dell'Unione si sono ritirati in politiche che, invece di trasformare i Balcani, si limitano a proposte per gestire lo status quo⅀ Non possiamo che rammaricarci di questo sviluppo negativo. È proprio nei Balcani che l'UE deve dimostrare di essere in grado di trasformare stati deboli e società divise. Questo è tanto necessario per i Balcani quanto per l'UE⅀ Il vero referendum sul futuro dell'Unione si terrà nei Balcani⅀".
(dalla risoluzione della "Commissione internazionale per i Balcani" presieduta da Giuliano Amato)

Con la proclamazione unilaterale dell'indipendenza da parte del Parlamento del Kosovo si è consumato l'ennesimo capitolo nella disgregazione di quella che un tempo era la Jugoslavia. Quest'ultimo atto avviene proprio in Kosovo, dove tutto era incominciato il 28 giugno 1989, con la grande adunata che consacrò Slobodan Milosevic a capo del nazionalismo serbo e che diede il là ad un tragico decennio di sofferenza e di morte.

Grandi festeggiamenti e pronto riconoscimento del nuovo Stato da parte degli Usa e di molti stati europei, ma anche grande preoccupazione, accompagnano questo passaggio. Dico subito che non è questo l'esito che avrei auspicato. Non perché sia contro l'indipendenza (che nei fatti già c'era), o al contrario, a favore del permanere del Kosovo come parte integrante della Serbia (appartenenza più sul piano formale che nella realtà). Semplicemente si tratta di un film già visto, come se la storia fosse destinata a ripetersi e non si fosse imparato nulla da quanto accaduto negli anni '90.

Eppure ci sarebbe stato il tempo per costruire un esito diverso, condiviso. Come già negli anni '90 quando la Jugoslavia era in fiamme e in Kosovo invece si sperimentava una strada sostanzialmente improntata alla nonviolenza. Grazie a Ibrahim Rugova, allora soprannominato "il Gandhi dei Balcani", che aveva perseguito una strada diversa da quella delle armi, preferendo che i ragazzi andassero a scuola invece che imbracciare il kalashnikov, rivendicando l'autogoverno attraverso le istituzioni parallele piuttosto che l'indipendenza. Un'esperienza che venne in buona sostanza ignorata e poi derisa e fatta a pezzi dagli accordi di Dayton che misero sì fine a tre anni e mezzo di combattimenti in Bosnia Erzegovina, ma riconoscendo la guerra come levatrice delle nuove statualità nazionali. E successivamente dal sostegno statunitense all'UCK, armato in segreto per dare uno sbocco non certo negoziale alla situazione in Kosovo.

Così fu guerra, detta "umanitaria" ma combattuta dalla Nato con l'uranio impoverito, facendo a pezzi il Petrolchimico di Pancevo e i ponti sul Danubio, ingigantendo un'emergenza umanitaria prima solo episodica con due diverse ondate di pulizia etnica che devastarono l'intera provincia.

Dal trattato di Kumanovo (che pose fine ai bombardamenti e portò alla risoluzione 1244 delle Nazioni Unite) ad oggi sono passati nove anni, il tempo per raggiungere un accordo per lo status di una provincia grande quanto l'Abruzzo ci sarebbe stato, eccome. Così non è stato, per distrazione (quando non scorre il sangue, lo sguardo è rivolto altrove), per l'inettitudine di una politica incapace di andare oltre gli schemi novecenteschi, per la volontà di dare una nuova umiliazione all'Europa. Il risultato è l'epilogo che conosciamo.

In questo tempo, come Osservatorio sui Balcani avevamo proposto una strada diversa, che tenesse conto delle istanze di entrambe le parti, la sovranità territoriale e le radici culturali dell'identità nazionale serba da un lato, il diritto all'autodeterminazione della maggioranza kosovaro-albanese dall'altro. E che mettesse al centro la prospettiva europea. Per uscire da questa situazione di stallo serviva un salto di paradigma, cambiando prospettiva, passando dall'orizzonte degli stati-nazione ad una logica di tipo "post-nazionale". Una strada inedita, quella del Kosovo come prima regione europea.

Una proposta che poneva:
- la centralità dell'Europa come soggetto politico post-nazionale;
- l'utilità di rileggere criticamente il concetto di autodeterminazione dei popoli nell'epoca dell'interdipendenza e dell'affermazione degli spazi transnazionali;
- la necessità di accogliere positivamente e dare risposte innovative tanto alle istanze di autogoverno quanto alla rivendicazione delle radici culturali ed identitarie plurime presenti in Kosovo.

La proposta di Osservatorio sui Balcani, articolata in nove punti, delineava uno status garantito sul piano internazionale da un forte ancoraggio alle istituzioni di Bruxelles e fondato sul piano interno sull'autogoverno e sul rispetto delle minoranze. Non dissimile da quell'accordo di Parigi che nel 1946 aprì la strada per una gestione dinamica del conflitto sud tirolese.

Anziché sondare strade nuove si è lasciato che le parti coltivassero le proprie alleanze e che un anno di finta trattativa si concludesse con un nulla di fatto. La diplomazia internazionale non ha saputo far altro - con il Piano Ahtisaari - che fotografare l'esistente. La società civile, muta. Forse troppo presa da un fare privo di pensiero o nello schierarsi ideologico da una parte o dall'altra.

L'Europa, ancora una volta divisa, ha perso l'ennesima occasione, accodandosi agli Stati Uniti senza capire - come già avvenne all'inizio degli anni '90 e poi a Rambouillet - quale fosse il prezzo della partita, ovvero il ruolo stesso dell'Unione Europea. In apparenza riconosciuto, tanto da varare "Eulex", la più grande missione europea di tutti i tempi. Ma senza il consenso delle parti e priva di legittimazione da parte delle Nazioni Unite.

Ci si chiede ora che cosa accadrà. La gente è stanca di guerra, anche se basta un niente per alimentare rancori ancora profondi. Ed è amaro constatare come - nonostante l'affollamento umanitario degli anni dell'emergenza - in pochi abbiano lavorato sull'elaborazione del conflitto, nella cui assenza risulta vuoto e demagogico parlare di riconciliazione. Difficile dire se ci sarà un nuovo esodo della minoranza serba, in fondo la condizione di profugo può essere peggiore e non credo che la maggioranza kosovaro-albanese abbia oggi interesse a compiere atti di ostilità contro le minoranze.

Sicuramente ne verrà condizionata l'agenda politica in tutta la regione, come si è visto nelle ultime elezioni in Serbia dove il candidato degli ultranazionalisti ha mancato l'elezione per centomila voti. Un vulnus, quello del Kosovo, che potrebbe avere conseguenze in tutta la regione, in primis sulla fragile situazione della Bosnia Erzegovina, dove il castello istituzionale prodotto dagli accordi di Dayton scricchiola paurosamente.

Una cosa è certa, comunque. Non è attraverso la proliferazione di piccoli stati etnici che si costruisce l'Europa.

di Michele Nardelli
(Responsabile rapporti istituzionali dell'Osservatorio sui Balcani)

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