Kenya: quando l’acqua è sorgente di conflitti

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«Io e mia moglie siamo stati aggrediti a 8 Km dal villaggio. I somali ci hanno minacciati con le armi e ci hanno rubato il bestiame. Dopo quell’episodio, la nostra comunità ci ha regalato qualche capra e questo ci sta aiutando nel sostentamento».

Nel raccontarmi la sua storia, Ibrahim mi indica una ferita riportata alla nuca durante l’attacco; siamo seduti su una stuoia, nel cortile di casa sua in un villaggio nei pressi della cittadina di Merti, nel nord-est del Kenya. La capitale Nairobi è lontana 9 ore d’auto e 500 Km di strada e pista polverosa. Il paesaggio, con i suoi colori tenui e le depressioni rocciose si presenta come una savana inaridita e inospitale per gran parte dell’anno. Siamo nella Contea di Isiolo, una “zona di frontiera”: qui, dalle verdi montagne del Meru e dai ghiacciai del Monte Kenya, si passa alle distese semidesertiche e alle zone più povere del Paese. Dopo Merti, continuando ad est verso la Somalia si attraversano 153.000 Km² - un’area pari a tre volte il nord Italia - di polvere, sabbia e arbusti. 

La storia di Ibrahim, di etnia Borana, è comune in questa parte di Kenya. La competizione per l’utilizzo delle sempre più scarse risorse naturali è, secondo molte analisi, tra le principali cause di conflitto nell’area. 

Il rapporto sulla sicurezza stilato a metà settembre 2016 dai partner del programma KAME - Kenya arid lands drought mitigation measures enhanced, un’iniziativa di cooperazione internazionale finalizzata a mitigare le conseguenze delle siccità nella Contea di Isiolo, finanziata dall’Unione Europea e promossa dall’Ong italiana LVIA, conferma: “La Contea di Isiolo è una delle zone più conflittuali nel nord del Kenya. Quando pascoli e acqua scarseggiano, le popolazioni dalle vicine Contee di Garissa, Marsabit e Wajir si spostano con le proprie mandrie ad Isiolo, dove c’è l’unico fiume permanente della zona, l’Ewaso Ng’iro. I conflitti, già esistenti per questioni legate ai confini, sono esacerbati dalla diminuzione di pascoli e fonti idriche. Negli ultimi 20 anni, i conflitti maggiori sono avvenuti tra i Borana di Isiolo e i Somali provenienti dal Wajir”.

Abdullahi Shandey, presidente dell’ONG keniota “Merti Integrated Development Programme (MIDP)” conosce bene questi temi e la sua associazione lavora, anche all’interno dell’iniziativa KAME, per la mitigazione dei conflitti. «Il conflitto qui non è solo un problema etnico ma concerne la gestione delle risorse naturali. – Mi racconta. – Stiamo cercando di far partire un’azione legislativa inter-contea che metta le basi per un dialogo tra le comunità».

Il Kenya è classificato dalle Nazioni Unite come un Paese affetto da carenza idrica cronica e il cambiamento climatico, se è visibile ovunque, qui a Merti lo è in modo sconvolgente. A ottobre scorso, il fiume Ewaso Ng’iro, vitale per tutto il nord-est del Paese, era ridotto ad un torrente.

Oltre il recinto di casa di Ibrahim c’è una lunghissima fila di persone, in coda per prendere acqua da una cisterna da 10.000 litri che viene riempita ogni tre giorni. In coda, soprattutto le donne. Oppure solo le taniche gialle, da 20 litri l’una, lasciate sotto il sole mentre le proprietarie cercano un po’ di sollievo nella poca ombra disponibile. Di questi tempi, la cisterna è l’unica fonte d’acqua a disposizione.

Lo studio Economics of Climate Change Kenya, realizzato dallo Stockholm Environment Institute, pronostica una crescita della temperatura media nel Paese di 1 º entro il 2030. I Paesi dell’Est Africa hanno un’estrema variabilità climatica, associata primariamente al fenomeno El Niño; ma negli ultimi 20 anni l’escalation è stata spaventosa. Violente siccità, che hanno colpito decine di milioni di persone, si sono succedute con una cadenza impressionante: 1998-2000, 2004-2005, 2009-2010; e nel 2014-2015 la quasi assenza di piogge è stata allarmante. Lo studio stima che il cambiamento climatico comporterà, per il Kenya, un costo entro il 2030 equivalente al 2,6% del PIL.

Tra questi costi ci sono le conseguenze dei conflitti tra le popolazioni pastorali del nord del Paese. Belgish, a nord di Isiolo, è un mercato fiorente per il commercio del bestiame, ma ora è deserto. A settembre centinaia di persone sono fuggite da almeno 10 centri abitati dell’area a causa delle tensioni cresciute dopo l’uccisione di una donna e due bambine Borana da parte di pastori Somali. La situazione si era già deteriorata a maggio, con furti di bestiame lungo i punti d’acqua. Questi eventi stanno causando migliaia di sfollati interni nel Paese.

Il Kenya ha un PIL in crescita del 5% annuo ma le regioni del nord sono rimaste indietro. Nel 2008 il governo ha varato un ambizioso piano di sviluppo per queste aree, “Vision 2030”, tuttavia contestato dalle organizzazioni della società civile in molti suoi aspetti, in particolare per l’auspicata costruzione di una diga da 71milioni di euro che dovrebbe servire dei futuri resort turistici e che si teme diminuirà ulteriormente il flusso d’acqua del fiume Ewaso Ng’iro utilizzabile dalle comunità locali.

Tommaso Menini, coordinatore dell’associazione LVIA per il progetto KAME, spiega: «Abbiamo adottato un approccio preventivo alle crisi climatiche rafforzando la resilienza, che significa preparare le popolazioni a fronteggiare queste siccità ormai cicliche. Quello su cui lavoriamo è proteggere le aree di pascolo e i punti d’acqua nel percorso di transumanza, diversificare le fonti di reddito e rafforzare il dialogo e la mediazione dei conflitti. Questi interventi sono anche un modo per preservare la cultura e le tradizioni pastorali, duramente messe alla prova dal cambiamento climatico».

Lia Curcio

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