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Kenya: nonviolenza e rielaborazione del conflitto
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Il 2008 è stato la "prova del fuoco" per la nonviolenza in Kenya che sta ancora tentando di comprendere la cause del disordine. Sembra ancora impossibile che nel "Paese della trasmissione orale", seppur in un breve lasso di tempo la "pulizia etnica" abbia avuto il sopravvento sulla "parola". Kenya evoca animali, parchi, accoglienza. I disordini post elettorali hanno scombinato le nostre mappe mentali che, per ergonomia, sono più facilitate ad associare ed interconnettere che a costruire ex novo. Kenya si associa a pace e Rwanda, per esempio, a guerra. Le immagini crude della "natura umana" hanno sorpreso i "media occidentali" che, da sempre associavano Kenya con stabilità. Le foto colorate delle Agenzie Viaggi si sovrapponevano, nell'immaginario collettivo, e quelle di agenzie stampa. Impressionata la retina a mo' di pellicola si fatica ridefinire nuove coordinate.
IERI
Il paragone con i paesi confinanti rafforza l'associazione sovradescritta. Ma gli "scontri etnici su motivazioni politiche" non sono una novità per la regina dell'East africa; ne abbiamo avuto prova, pur in misura minore, sia nel 1992 che nel 1997; guarda caso sempre in occasione di elezioni politiche. Altri scontri a bassa intensità tra popolazioni nomadi non hanno praticamente mai cessato a nord dell'equatore da quando si scrive la storia del Kenya ad oggi.
La "questione della terra" che ha tenuto il mondo con il fiato sospeso nel post elezioni 2007 non è infatti cosa recente. Era concausa della frattura tra "leali" al governo e "liberatori" sin dai tempi coloniali. Anche la componente etnica era da allora dominante ma non totalizzante. Insomma, per gli storici, di nuovo c'è solo l'estensione del conflitto, il numero di morti accertati e sfollati. 1.000 i primi e 250.000 i secondi sono cifre prudenziali. Mario Raffaelli rappresentante del Governo italiano in Somalia ipotizza che i morti siano un multiplo di quelli dichiarati ed il Kenya non avrà certo un futuro facile. Ci vorranno anni e non mesi per affrontare i "nodi del contendere" ed una vita per riannodare un nuovo dialogo perché non sarà facile "...cancellare le macchie di leopardo" (proverbio Kikuyu).
Per riscontrare tali numeri bisogna risalire, secondo Anna Maria Gentili, alla fine dell'impero britannico quando gli inglesi impiccarono 1.200 Mau Mau, ne uccisero a migliaia e rinchiusero in campo di concentramento più di un milione di persone. Al centro del conflitto la terra e le opportunità che ne derivano.
Il "diritto di voto", lasciato in eredità dall'amministrazione coloniale, fu da sempre esercitato dalla maggioranza della popolazione come una seria volontà di riformare quel luogo che veniva sempre più identificato come "patria comune". Lo stesso dicasi ai giorni nostri ove, nonostante i brogli, i kenyani sono riusciti a mandare a casa alcuni "mastini della politica" che promettevano riforme senza concretizzarle e che abusavano di risorse pubbliche. La riforma per eccellenza da sempre perseguita fu ed è la Costituzione. I keniani tentarono, per ben due volte, una Costituzione parafederale - politica del majimbo - di regionalizzazione su base etnica. La prima volta con Jomo Kenyatta e, recentemente, con Kibaki.
Nella generazione di mezzo tra i due moderati non fu possibile ipotizzare alcun riformismo in quanto fu governato, forse meglio totalizzato, da Daniel Arap Moi che proclamò il partito unico de jure e governò con il divide et impera all'insegna "o me o il caos". Per certi versi non ebbe tutti i torti in quanto il multipartitismo portò al paradosso che accomuna diverse nazioni subsahariane: cristallizza le etnie e concentra ancor più i poteri Costituzionali nelle mani di pochi. Il fatto dovrebbe far riflettere i politologi che abitano le Istituzioni Finanziarie Internazionali spesso fautori dell'export tout court della democrazia in altri luoghi con le stesse modalità e per lo più da realizzare in tempi contingentati.
Non solo per le elite ma anche per la gente più semplice la riforma Costituzionale fu ed è cosa seria. Sia per il fine che per il mezzo. Il fine è la redistribuzione del potere e quindi delle opportunità. L'attuale Costituzione centralista non piace. Ma non è detto che una di tipo regionalista possa portare all'automatico maggiore accesso dei più alla terra/scuola/ sanità/giustizia/lavoro. Forse ciò potrà accadere per le elite delle diverse comunità che si troveranno a gestire in sede locale maggiori denari ma questo non significa una ricaduta sulle popolazioni. Se poi non arrivano "fette di torta" ma solo briciole l'auspicato autogoverno dei territori si trasforma in tribalismo cristalizzando su base territoriale ciò che abbiamo già sperimentato su base partitica. Cos'è stato il genocidio in Rwanda se non la cacciata degli "estranei" che venivano ad occupare le terre degli indigeni? Il mix terra/clan è da sempre esplosivo ed una riforma in tal senso deve essere più che cauta. Se sovrapponiamo la mappa dei focolai nel recente conflitto con la mappa delle tribù troveremo, per dirla con Padre Giuseppe Caramazza, la cacciata dei Luya nella zona di Eldoret, dei Kamba vicino a Nakuru, dei Kisii a Kipkelion e violenze condotte dai kikuyu in città come Nakuru e Naivasha.
Il mezzo, quindi, per arrivare non solo alla riforma della Costituzione ma alla pacificazione del Paese, dev'essere quello già sperimentato tra il 2001 ed il 2003 di "partecipazione democratica". Si trattò di un evento politico senza precedenti in Africa. Non si è discusso in anguste aule parlamentari tra giuristi ma tra e con la gente in un doppio tour del Kenya. Protagonista di questo enorme sforzo di ascolto fu il costituzionalista kenyano Yash Pal Ghai, già consulente per la Costituzione in Nepal ed inviato ONU in Cambogia. Aver privato la gente della propria "creatura politica" costruita in anni di lavoro e confronto è stata una mancanza sottovalutata sulla quale ha fondato il suo movimento Raila Odinga. Ispirato dalla Rivoluzione arancione in Ucraina s'è fatto portavoce del malcontento popolare a partire dal referendum sulla Costituzione.
Ha attaccato il conservatorismo del potere ed ha fatto subito breccia nel risentimento nazional popolare. Insomma, la soluzione sia al conflitto che alla nuova via politica non c'è altrove ma sta ancora nelle comunità del Kenya che vanno rivisitate a patto, poi, di non tradirle. Non si può riformare il "sistema Paese" senza riformare le persone. L'Africa ha la più bella Carta dei diritti umani del mondo. L'unica che faccia riferimento non solo al singolo ma alle comunità, ai popoli. Ciò non significa necessariamente che abbia anche le "migliori società civili" al mondo. Non v'è automatismo. Il lavoro a maggior contenuto politico che si può svolgere è sul riappropriarsi di un sogno, sul rideterminare il proprio futuro, sul ridisegnare il bene comune.
DOMANI
Alcun romanticismo. Solo fatiche tipiche dei dopoguerra. Il conflitto avrà aumentato a dismisura il "tutto e subito" e quindi l'avida richiesta di modernismo che affascina i più giovani. La globalizzazione si estende senza limiti su territori da sempre "poveri" in PIL e ricchi di relazioni moltiplicando i luoghi del post moderno fatto di cellulari, bancomat, coca cola, occhiali da sole, fast food, internet point, supermercati, video shop, riviste patinate, lotterie e distributori di benzina. Questi "beni" non sono un male in se ma producono un enorme disagio popolare per il mancato accesso. Il consumismo luccicante è per pochi e scardina le regole che le comunità si son date in secoli di storia e faticosa convivenza. I "tradizionalisti" Mungiki hanno paura per l'avanzata del post moderno con i suoi jeans che scostumano le proprie donne. S'aggrappano alle proprie tradizioni anche se violano i diritti umani rispondendo istericamente alla modernizzazione.
Fortunatamente una classe d'intellettuali piuttosto raffinata sa proporre alla politica le battaglie di sempre: lotta alla corruzione, riforma della giustizia, scuola e sanità per tutti, ridistribuzione delle terre intravvedendo tempi più lunghi e non immediati per un maggior benessere.
Il Kenya dalle due velocità vive questa lacerante ambivalenza generazionale. I giovani sono impazienti e non vorrebbero vedere le opportunità concentrarsi sempre più nelle mani di pochi mentre vivono confinati negli slums che circondano la modernità. Sono privi di luoghi ove formarsi. Non solo biblioteche, scuole di politica popolari ed universitarie ma soprattutto associazioni intermedie tra politica e società civile che allenano i giovani alla leadership dopo decenni passati sul campo a ricercare il "bene comune". Per ridisegnare il Kenya del 2020 con una nuova classe dirigente urge diffondere cultura che, peraltro, è l'unica arma contro tutte le violenze. Una cultura per una elaborazione nonviolenta e nondistruttiva dell'aggressività che è una componente essenziale del nostro agire umano. Ciò vale anche per il nostro Paese a sostegno della tesi che l'omologazione non ha più frontiera e che se una cooperazione tra i popoli è necessaria deve da subito affrontare l'interdipendenza e la comune capacità delle nuove generazioni non solo di abitare il proprio tempo ma di progettare il futuro a partire dai saperi intrinseci dei propri territori che la modernizzazione stessa tende ad appiattire al di qua ed al di là dell'equatore.
OGGI
Ma il Kenya, nonostante l'attuale difficoltà a rialzarsi è il paese delle "mediazioni politiche transnazionali", dei forum mondiali, delle Organizzazioni Internazionali governative come Habitat. L' Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC), voluto dall'Unep - Agenzia delle Nazioni Unite per l'Ambiente che ha sede a Nairobi, solo a titolo d'esempio, ha ricevuto recentemente il premio nobel per la pace. Insomma, parimenti gli atleti che sbancano tutte le maratone del mondo, è il paese delle "sinergie positive".
A riprova di ciò e del superamento del recente conflitto abbiamo visto in campo:
1) in primis la comunità internazionale e, quindi, l'ONU e l'UA assieme a molti presidenti di Stato che si sono proposti per favorire il dialogo;
2) i media indipendenti che all'unisono hanno parlato di pace.
3) la società civile del Kenya fatte di organizzazioni di base e solide reti che si sono mobilitate per attutire i danni causati dalla banalità del male.
4) il profit che vede nella pace e solo in essa un'opportunità per fare business.
Andiamo con ordine. Proverò ad affrontare ogni singolo fattore indicando, per motivi di spazio, una sola "buona pratica".
La comunità internazionale ha dimostrato che la pace è possibile. Secondo il diritto panumano quando sono violati, o sono in procinto di esserlo, i valori supremi dell'ordinamento internazionale - quali i diritti umani, la pace, la sicurezza, la democrazia, la salute e l'ambiente -, la Comunità internazionale ha il diritto-dovere d'intervenire, anche coercitivamente se necessario, al fine di far cessare la situazione d'illegalità.
Questa opportuna "ingerenza" potrà essere da monito per future crisi. Urge a livello internazionale, per i paesi più a rischio, un'estensione del principio d'ingerenza umanitaria o d'autorità sopranazionale affinché non si accompagni più alla crisi di un Kenya la crisi, dai più taciuta, di un Ciad ormai sull'orlo della fame. Buona pratica: Kofi Annan. L'ex Segretario Generale delle Nazioni Unite non ha mai smesso di ricercare un accordo. C'è voluta la pazienza di un grande "mediatore" africano quasi a riscattarsi dall'onta del '94 quando a capo delle forze di peacekeeping dell'ONU non era riuscito a farsi dare 5.000 soldati per fermare il genocidio rwandese come richiesto dal generale Dellaire. Egli non solo ha "agito" come arbitro ma come paziente educatore nel gioco tra le parti. Ha riscritto le regole del gioco assieme ai giocatori che erano inosservanti delle stesse. Attraverso un dialogo contagioso è riuscito a ricondurre i giocatori ad abbandonare gli istinti a favore degli apprendimenti.
I media del Kenya hanno dimostrato una "responsabilità politica" senza precedenti. Tutti si sono schierati per la pace. Hanno fatto sistema e muro contro l'odio. Hanno agito in supplenza della politica indicando anch'essi tempi e modi per uscire della crisi. Buona pratica: i direttori del quotidiano The Nation e del "nemico" di sempre The Standard hanno firmato congiuntamente i redazionali di testata e diffuso ad altri media questo spirito costruttivo allontanando per sempre lo spettro di Radio Mille Colline che nel '94 ha insanguinato i Grandi Laghi.
L'economia del Kenya, da decenni, non ha mai conosciuto un'impennata così straordinaria dei prezzi come durante il conflitto. I veri "portatori d'interesse" come i nuovi ricchi che hanno beneficiato dell'allargamento della forbice dall'aumento del PIL e gli investitori stranieri - dalla telefonia mobile ai fuori strada - si sono preoccupati per un ritorno repentino alla pace. Il Kenya è la porta orientale dell'Africa dell'est. Impossibile ignorarlo. I grattacieli di Nairobi ed i magazzini di Mombasa ne sono testimonianza. Tutte le vie commerciali che riportano la modernità ai confini con il deserto dovevano essere immediatamente riaperte in quanto porti ed aeroporti scoppiavano di derrate.
L'impero cindiano (Cina e India) dell'import export ha investito in Africa in prospettiva, bruciando gli altri concorrenti. I business plan delle espansioni commerciali non prevedono interruzioni; salterebbero i manager. Sembrerà un paradosso ma per portare le armi cinesi nel Darfur serve pace in Kenya. Buona pratica: Le multinazionali del turismo si sono comportate come "attori di pace". Le compagnie aeree ed agenzie viaggi per Mombasa, Malindi ed i dieci parchi del Kenya non potendo permettersi un'instabilità per più mesi non hanno badato al conflitto etnico ma richiesto con forza e con le usuali "pressioni politiche" la stabilità necessaria.
La società civile ha espresso il "meglio di se" nonostante le contraddizioni che la caratterizza. Molte sono le sette affiliate ai politici, le ong sono più sulla carta che sul campo ed anche nei network nazionali per la pace ed i diritti umani vi sono professionisti con stipendi non lontani da quelli dei deputati. Nonostante ciò sono uscite dai propri "luoghi privilegiati" per favorire un dialogo nella politica. Buona pratica: a Nyahururu l'organizzazione Saint Martin con molti vescovi ha promosso il 30 gennaio - in occasione del 60° dalla morte del Mahatma Gandhi - un incontro tra tutte le Chiese, compresa la moschea, per organizzare la più imponente manifestazione nonviolenta della Provincia. Anche questo tassello che parte dalle comunità ha contribuito a fermare la "banalità del male". Purtroppo nonviolenza equivale a non-notizia e questo non ha avuto eco nei media occidentali attenti più ai danni causati dall'incendio che al lavoro incessante e quotidiano dei pompieri.
Non sarebbe male ripartire da qui. Dalla rete che s'è intrecciata tra questi diversi mondi per affrontare assieme e da subito i nodi veri che si celano dietro l'accordo di pace. Dalla questione della terra sino alla redistribuzione delle diverse ed altre opportunità in ottemperanza allo splendido dettato dell'Unesco secondo il quale la pace è molto più che il risultato di trattati tra governi o di accordi tra persone potenti (...) Non è quindi la forma di governo che garantisce la pace, né tantomeno un insieme di trattati o accordi internazionali. Essa è garantita solo ed esclusivamente dal comportamento e dalle scelte degli individui che insieme costituiscono il comportamento e le scelte di un popolo. Agiamo con questi.
Fabio Pipinato