Kenya: non viviamo più nella paura, ma permangono le ferite

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Don Gabriele Pipinato responsabile della comunità di St. Martin nella diocesi di Nyahururu in Kenya, riprende il dialogo con i lettori di Unimondo una "lettera di pace" che riportiamo integralmente per i nostri lettori.

Cari amici, pace!

Continuo il dialogo iniziato a gennaio per riflettere insieme su quello che stiamo vivendo qui in Kenya e raccontare il nostro sogno di pace.

I giornali non parlano più delle vittime della violenza e così è facile convincersi che non ce ne siano, invece un prezzo molto alto continua ad essere pagato dalle persone più deboli. Brian è uno di loro, vittima della disperazione della sua mamma. Entrambi sono sieropositivi. Fuggiti assieme dai luoghi degli scontri tribali, sono arrivati a Nyahururu. Qui la sua mamma non ha trovato le medicine di cui aveva bisogno, peggiorando a tal punto da renderla incapace di procurare da mangiare per il suo bambino. Allora ha deciso di abbandonare Brian in ospedale ed è fuggita, ma è stata rintracciata e picchiata per quello che ha fatto. Le è stato riconsegnato suo figlio, intimandole di non farsi più vedere. Disperata, ha abbandonato il suo bambino nella piccola stanza che aveva preso in affitto. I vicini hanno sentito il bambino piangere a lungo; il giorno seguente un silenzio preoccupante e nessuno che andava e veniva dalla stanza. Il terzo giorno sono venuti ad informarci. Assieme alla polizia, abbiamo sfondato la porta. Brian sedeva per terra, consumato dall'angoscia e sfinito dalla fame. L'abbiamo accolto al Talitha-Kum, con grande festa degli altri bambini. Adesso Brian ha ritrovato il sorriso, grazie al clima di fiducia e di pace attorno a lui.

La gente del Kenya non ha ritrovato la fiducia e la pace come Brian, ma voglio darvi una buona notizia: non si vive più nella paura. Certamente non mancano motivi di preoccupazione per un governo di coalizione che vive nel sospetto reciproco e per i rifugiati che stanno affrontando il dramma di una vita precaria, tuttavia non si vive nella paura. Non c'è più l'incertezza del futuro, l'angoscia che gli eventi possano scivolare in un genocidio, il timore di parlare di quello che è successo. La gente dorme la notte e le minaccie di vendetta si sono allontanate.

Non viviamo più nella paura, ma l'ingiustizia e la violenza hanno lasciato ferite profonde e ci vorranno lunghi anni per guarirle. Lo sanno bene i nostri operatori che lavorano con i rifugiati e si dedicano all'ascolto delle tante donne che sono state violentate e di coloro che hanno perso i loro cari durante gli scontri. Hanno bisogno di cibo, ma più forte è la fame di rispetto e dignità. Hanno la necessità di un alloggio, ma più ancora cercano accoglienza. Chiedono medicine, ma più profondo è il bisogno di guarire il cuore.

Siamo stati aiutati a guarire le ferite del cuore anche dalla visita di Jean Vanier: uomo profondamente ispirato e capace di trasmettere la fede che lo anima. È il fondatore della Comunità dell'Arca: 134 comunità per persone con disabilità mentali sparse in tutto il mondo. A Nairobi abbiamo organizzato sei incontri nel teatro dell'università cattolica, invitando coloro che lavorano con persone disabili in Kenya e i giovani di diverse baraccopoli e università. Hanno poi partecipato molte altre persone che avevano letto i libri di Jean Vanier o lo conoscevano per il suo lavoro e lui ha saputo raggiungere tutti, raccontando come i poveri hanno cambiato il suo cuore e come il vangelo lo ha sostenuto nel suo cammino.

La domenica mattina a Nyahururu Jean Vanier ha parlato a 2000 giovani e poi ha partecipato ad un incontro straordinario al quale erano invitate le persone disabili e i loro genitori. Eravamo più di mille, chiamati proprio dai nostri fratelli più deboli a trasformarci in una comunità che sa mettere i poveri al centro e custodire il loro dono. Il loro è un amore sincero, non hanno bisogno di nascondere le loro debolezze e hanno l'umiltà di chiedere aiuto. Una esperienza molto lontana dal nostro quotidiano, dove ognuno di noi cerca di non avere bisogno degli altri e di arrangiarsi da solo. Anche in Kenya siamo tutti presi da questo idolo che è l'indipendenza ad ogni costo: un'auto per muoversi liberamente, una sicurezza economica per essere autonomi, una assicurazione per garantirsi il futuro.

Questi nostri fratelli disabili ci hanno mostrato quello che conta di più: la gioia di rimanere assieme, condividere il bene e celebrare la vita. Come il piccolo Brian, avevano bisogno di qualcuno da cui dipendere, qualcuno che si prendesse cura di loro e desiderasse diventare loro amico. Mi rendo conto che se il sogno di autonomia in ognuno di noi diventa un idolo, miete vittime tra i più deboli e ci rende tutti più soli.

Dopo il giorno di festa con le persone disabili, abbiamo iniziato una esperienza di ritiro spirituale per i nostri volontari e coloro che lavorano al Saint Martin. Jean Vanier ci ha aiutato a radicare il nostro servizio nel vangelo di Gesù e abbiamo vissuto quattro giorni di grazia e di pace. Non saprei come raccontare questa esperienza che ci ha toccato il cuore: ci siamo avvicinati alle nostre ferite senza rabbia e senza rancore, ritrovando riconciliazione e perdono. Durante la Messa dell'ultimo giorno Joris ha ricevuto il battesimo. Joris è un giovane olandese che vive con noi come volontario da quattro anni. Figlio di genitori atei, non si era mai avvicinato ad una vita di fede. Il suo battesimo è stato un momento irripetibile, uno di quegli eventi che hanno la forza di raccogliere i sentimenti più profondi dal cuore di ognuno ed esprimerli in un gesto. Un momento di comunione.

Nel passato eravamo noi europei a venire in Africa come missionari e portare la fede, adesso le parti si sono invertite e questa comunità africana ha accompagnato Joris ad incontrare Gesù e il suo vangelo. È stata per me una esperienza completamente nuova e mi ha insegnato a rispettare la libertà di ognuno nell'incontrare il Signore della vita. Joris ha una fede molto diversa dalla mia: non dà nessuna importanza ai valori che per me sono fondamentali e non considera certi filtri morali che continuano ad essere un riferimento per la mia vita. Joris vuole bene a Gesù e si è innamorato del suo vangelo e io lo sento molto vicino alla mia vita. La semplicità e la verità con le quali ha vissuto il suo battesimo mi hanno disarmato e mi stanno aiutando a cercare l'essenziale.

Termino con una preghiera che Joris ama molto ed è stata scritta dal Patriarca Atenagora di Costantinopoli:

Sono disarmato
Ho ingaggiato questa guerra contro me stesso
da molti anni.
È stata terribile.
Ma ora sono disarmato.
Nulla più mi spaventa,
perché l'amore allontana la paura.
Sono disarmato dal bisogno di essere giusto
e di giustificare me stesso squalificando gli altri.
Non sono più sulla difensiva,
tenendo strette le mie ricchezze.
Voglio soltanto accogliere e condividere.
Non sono attaccato alle mie idee e ai progetti.
Se qualcuno mi mostra qualcosa di meglio -
no, non dovrei dire "meglio", ma "buono" -
lo accetto senza alcun rimpianto.
Non cerco più di fare confronti.
Quello che è buono, vero e reale,
è sempre per me il meglio.
Ecco perché non ho paura.
Quando siamo disarmati
e ci siamo sbarazzati del nostro io,
se apriamo il cuore al Dio-Uomo
che fa nuove tutte le cose,
allora egli toglie via le ferite del passato
e rivela i tempi nuovi
in cui ogni cosa è possibile.

Vi auguro ogni bene,
don Gabriele Pipinato

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