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Israele – Palestina, alle radici dell’odio
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Ci risiamo. La spirale di violenza senza fine colpisce ancora Israele e Palestina. Ovviamente quando si tratta di questi due contendenti tutto si amplifica, gli spiriti ribollono e le contrapposte tifoserie, di solito a migliaia di chilometri di distanza dal conflitto, si risvegliano e si azzuffano. Inutile stare a ripetere la litania che si sente in questo periodo sulle ragioni e i torti di ciascuno, mentre la situazione si incancrenisce di giorno in giorno. Nessuna trattativa di pace, nessun cessate il fuoco, nessuna manifestazione pacifista potrà servire a risolvere la guerra permanente se non si coglie prima la questione di fondo. Capirla non significa affatto superarla. Ma almeno si comprende qualcosa.
Il punto da cui scaturisce tutto nasce dalla legittimità o meno dell’esistenza dello Stato di Israele. Qui sta l’elemento di rottura. Per la maggioranza dei musulmani (sarebbe meglio dire degli arabi, visto che tra i palestinesi ci sono anche cristiani) la nascita dello Stato ebraico, definito in maniera sprezzante “entità sionista”, è una catastrofe, la più grande ingiustizia del tempo presente. Israele si è impadronito con la forza della terra altrui: l’unica soluzione sarebbe quella di recuperare con la forza la terra perduta. Questa la visione più diffusa. I più realisti accettano ormai l’esistenza di Israele, ma se potessero cercherebbero di ritornare al 1948, o anche prima, quando la presenza ebraica nella terra dei padri era esigua.
Se l’esistenza stessa di un nemico è messa in discussione, l’unica soluzione sono le armi. Armarsi con ogni mezzo per difendersi e attaccare con ogni mezzo. Non sono solo i fondamentalisti che la pensano così: è l’inevitabile conseguenza del tentativo di “sanare” la suprema ingiustizia. È in atto una guerra totale di annientamento, non è una questione di confini. Per combattere Israele, per sconfiggere gli invasori e per recuperare l’onore perduto occorre armarsi. E così Hamas a sud ed Hezbollah a nord cercano di possedere missili sempre più potenti. Tutti in guerra si comporterebbero così. Cercherebbero appoggi, elaborerebbero strategie per colpire il nemico.
Ovviamente la comunità internazionale, almeno a parole, vorrebbe impedire questa corsa agli armamenti di questi gruppi poco controllabili. Vi ricordate la missione di pace dell’ONU in Libano cominciata nel 2006 a seguito dello scontro Israele-Hezbollah? Ebbene, avrebbe dovuto impedire che la formazione sciita si dotasse di nuove armi più potenti. Non si è fatto nulla.
A fronte di questa situazione Israele si arma a sua volta, foraggiato anche da armamenti italiani. E chi non lo farebbe? Grazie al sostegno degli Stati Uniti e a una caparbia lotta per la sopravvivenza, lo Stato ebraico possiede armi potentissime, di gran lunga più terribili rispetto a quelle degli avversari. Affinchè il nemico non si rafforzi bisogna colpirlo per tempo, altrimenti un domani sarà lui a colpire. Sono fuorvianti, benchè sconvolgenti, i conteggi dei morti che vedono i palestinesi cadere a centinaia contro le poche unità tra le fila degli israeliani: crediamo che se Hamas avesse armi più potenti non le utilizzerebbe, non importandosi per nulla dei civili? I morti israeliani sono di meno perché i civili sono protetti da scudi antimissile. Sappiamo che l’unica strada percorribile è il disarmo, ma ciò deve essere compreso in una strategia di pace complessiva, che non esiste. Così Israele conta solo sulle armi per sopravvivere. L’odio verso gli arabi cresce, il sogno dei pionieri di una terra rigogliosa e in pace è diventato l’incubo dei nazionalisti che vorrebbero cancellare i palestinesi.
La logica della guerra porta a questo, al desiderio di annientare il nemico. Solo dopo una guerra più terribile delle altre l’Europa ha trovato il sentiero della pace su cui si è incamminata da quasi settant’anni. Così avverrà probabilmente anche in Medio oriente. Nuove tragedie attendono.
Occorrerebbe rovesciare la situazione con una logica di pace. Essa passa attraverso la legittimazione reciproca dei contendenti. Un’impresa difficilissima che neppure noi, osservatori distanti e sicuri in un paese in pace, non riusciamo a fare. Le religioni e le culture possono giocare un ruolo decisivo. Si può chiedere a un arabo di prendere atto dell’esistenza di Israele, non come un sopruso da tollerare adesso e da estinguere in futuro, ma come una vicenda storica da cui non si può tornare indietro? Si può chiedere ad Israele passi concreti per farsi legittimare? In questi anni sta avvenendo esattamente il contrario. I supporter della causa palestinese dipingono Israele come uno stato nazista, nazionalista e usurpatore; gli israeliani continuano a costruire insediamenti e a prendersi nuova terra evitando qualsiasi gesto effettivamente distensivo. Il mondo musulmano, dispiace dirlo, odia Israele. E tra gli ebrei sta montando un sentimento analogo.
Resta la necessità di disarmare il linguaggio che rischia di alimentare l’odio anche senza volerlo. Capire la situazione, essere solidali con le vittime e con i popoli passa sicuramente attraverso la denuncia della violazione dei diritti umani, ma anche attraverso il tentativo di comprendere le ragioni altrui.
Articolo già pubblicato in parte dal quotidiano “Trentino”