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Iraq: passa la Costituzione detta 'illegale'
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La Costituzione irachena è stata approvata grazie alla vittoria dei 'sì' al referendum del 15 ottobre scorso. È questo il dato emerso dal conteggio dei voti, reso noto poco fa dalla vice presidente della commissione elettorale, Nabia Hussein, in una conferenza stampa trasmessa in diretta dalla tv al-Jazeera. In totale, il 78% degli iracheni che hanno partecipato al voto ha detto sì alla nuova Costituzione. L'importante, per l'approvazione del documento, era che non si raggiungesse la maggioranza dei due terzi di 'nò in almeno tre province del paese. Infatti, a bocciare in larga maggioranza la Costituzione sono stati gli elettori della provincia di Al-Anbar e di Salahuddin, entrambe sunnite. Come previsto da diverso tempo, l'ago della bilancia è stata la provincia di Ninive, dove si trova la città di Mosul. In questa zona i voti a favore del testo hanno raggiunto il 44%, mentre i 'nò si sono attestati al 55%. Pur avendo vinto in questa terza provincia, la percentuale è stata troppo bassa per permettere la bocciatura della bozza di Costituzione.
Dal Comitato "Iraq libero" arriva l'accusa di "numerosi brogli, pesanti e macroscopici nella provincia di Ninive , ma anche in quella di Dyala (Baquba) ed in quella di Kirkuk". Di certo c'è sicuramente che "questa fase del dramma iracheno è forse la più fatidica perchè racchiude consacrandolo, sotto il titolo generale di "federazione", un concetto totalmente nuovo di essenza dello stato e di identità". Così scrive David Hirst sul quotidiano britannico Guardian. In questa costituzione, i kurdi iracheni non ottengono lo stato che il 98% di essi vuole, secondo un recente referendum, ma ottengono dei vantaggi - vasti poteri legislativi, il controllo delle loro milizie, e autorità sulle scoperte future di petrolio - che in effetti consacrano la quasi indipendenza di cui hanno goduto dall'intervento "umanitario" occidentale a loro favore nella Guerra del Golfo del 1991, e che i kurdi considerano come una tappa verso l'obiettivo reale. Secondo Hirst "l'adozione di una formula federale è vista dal mondo arabo non come un rimedio per la tendenza alla divisione intrinseca dell'Iraq, ma, in condizioni di tensioni e violenza crescenti fra le comunità, come un qualcosa che la stimola".
"Gli arabi hanno da molto tempo messo in guardia contro la "libanizzazione" dell'Iraq, automaticamente consapevoli del fatto che praticamente ogni stato creato dall'Occidente nella parte orientale del mondo arabo contiene al suo interno le tensioni etniche o confessionali che hanno prodotto quell'archetipo di guerra civile araba. Ma laddove, di concerto con gli Usa, gli arabi sono riusciti alla fine a spegnere l'incendio libanese prima che si diffondesse, le loro prospettive di ottenere la stessa cosa in mezzo alla violenza in Iraq sono veramente esili" - continua Hirst che da una complessa lettura del momento."Il sistema di stati inter-arabo - e la sua istituzione principale, la Lega Araba - è da molto tempo incapace di una azione concertata contro quelle che - come l'Iraq - sono percepite come minacce alla "nazione" araba. Ora il sistema stesso è minacciato dalla crescita di attività non statuali, dal traffico transfrontaliero di ideologia islamica estremista - assieme ai "jihadisti" e ai kamikaze che agiscono in base ad essa - o dalle solidarietà etniche e confessionali che minacciano di fare a pezzi l'Iraq".
"Questa Costituzione è tanto illegale quanto l'occupazione da parte delle forze di aggressione guidate dagli Stati Uniti: per questo la nuova Carta non ha alcun futuro": lo dice alla Misna Samir Amin, 74 anni, economista di fama internazionale, egiziano di nascita e francese d'adozione. "Il referendum del 15 ottobre, come le elezioni del gennaio scorso, non ha requisiti di legalità. Allo stesso modo, non hanno alcun valore le cosiddette istituzioni create su volontà degli Usa e della coalizione". A partire "dal governo e dal tribunale che sta giudicando Saddam Hussein e che invece dovrebbe mettere sotto processo il presidente degli Stati Uniti George W. Bush, il premier britannico Tony Blair e gli altri leader internazionali che hanno appoggiato questa operazione sciagurata" aggiunge Amin al telefono da Dakar, in Senegal, dove ha sede il 'Forum del Terzo Mondo' di cui è presidente. "La storia - incalza - dimostrerà che gli americani saranno obbligati a lasciare l'Iraq, come accadde in Vietnam".
Secondo un sondaggio, effettuato per conto del Ministero della Difesa ed esaminato dal Sunday Telegraph, 65 per cento dei cittadini iracheni sostiene gli attacchi contro le truppe britanniche e meno dell'uno per cento pensa che la partecipazione militare alleata stia contribuendo a migliorare la sicurezza nel loro paese. Questo dimostra per la prima volta la reale forza del sentimento anti-occidentale in Iraq dopo più di due anni e mezzo di occupazione sanguinosa.
Il sondaggio riservato sembra contraddire le rivendicazioni fatte dal generale Mike Jackson, il capo del General Staff, che solo pochi giorni fa si congratulava con i soldati britannici per "il sostegno degli iracheni nella costruzione di un Iraq nuovo e migliore". Il Sunday Telegraph ha rivelato il mese scorso che un programma per un ritiro iniziale delle truppe britanniche era stato accantonato perché mancavano le condizioni di sicurezza, facendo dire che l'Iraq stava rapidamente diventando "il Vietnam della Gran Bretagna" . Il sondaggio è stato eseguito da un gruppo di ricerca dell'Università irachena che, per ragioni di sicurezza, non è stato informato che i dati sarebbero stati utilizzati dalle forze della coalizione. [AT]
Fonte: Osservatorio Iraq