Il punto - Israele sembra esistere solo se in guerra

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Immagine: Unsplash.com

Potessero ancora pensare, chissà cosa penserebbero. Parlo dei 18.885 bambini uccisi a Gaza, in meno di due anni, dai soldati israeliani. Chissà come reagirebbero - loro, che hanno avuto il futuro rubato dalle armi e dalla indifferenza spietata degli israeliani - alla decisione del governo Netanyahu di rubare ogni speranza di futuro al loro intero popolo.

La decisione dell’esecutivo di Netanyahu di cancellare ufficialmente dalla storia ogni possibile, futuro stato di Palestina è un macigno lanciato sul Mondo. Questa scelta cancella le speranze dei palestinesi - sempre ammesso ne avessero ancora - e, contemporaneamente, cala la pietra tombale sulle possibilità di pace dell’area.

Tecnicamente il colpo di spugna avrà la forma di una nuova colonia, un insediamento di 12 chilometri quadrati che taglierà in due la Cisgiordania, il territorio che il diritto internazionale assegna al popolo palestinese. Già oggi quella terra, che sulle mappe delle Nazioni Unite appare per quello che dovrebbe essere, cioè un’area separata e autonoma da Israele, è ridotta a poltiglia dai coloni israeliani. Da oggi in poi, i palestinesi saranno semplicemente e ufficialmente esclusi da tutto, tagliati in due. Il ministro israeliano delle Finanze, Bezalel Smotrich, esponente dell'estrema destra parafascista, ha parlato con chiarezza: si tratta - ha detto - di un "passo significativo, che sostanzialmente cancella l'illusione dei due Stati. Ogni nuova unità abitativa, destinata ai coloni, rappresenta un chiodo sulla bara di questa idea pericolosa".

Per i palestinesi saranno due le scelte: scappare altrove o resistere, armi in pugno. La storia ci indica che quest’ultima sarà, almeno nei prossimi anni, la strada che seguiranno, alimentando una guerra infinita che vedrà di volta in volta affiancarsi altri attori. Attenzione: è quello che Israele vuole. Israele sembra esistere solo se in guerra. Se non c’è, la crea, allargandosi verso confini che solo la follia integralista e teocratica della classe dirigente vede come propri. Occupa illegalmente e in modo illegittimo - non è un opinione, lo dice il diritto internazionale - non solo parti del teorico stato di Palestina, quello definito dalla risoluzione dell’Onu numero 148 del 1947. Ha tra le mani una fetta importante di Siria, stato indipendente e sovrano e di Libano, altro stato indipendente e sovrano. Tel Aviv, la capitale riconosciuta dal diritto internazionale, non si fermerà. 

Non la fermeranno gli alleati europei e filo occidentali, sempre più in difficoltà. Sono esemplari, da questo punto di vista, gli scontri con la Francia di Macron e con l’Australia. Entrambi i Paesi sono stati accusati da Netanyahu di alimentare l’antisemitismo, con la loro scelta di riconoscere lo Stato di Palestina. I due governi hanno risposto mandando a quel paese il capo del governo israeliano e invitandolo a smettere di alimentare lui il razzismo, tirando fuori la storia di un antisemitismo che non c’è.

Il vittimismo israeliano, pratica su cui Tel Aviv ha costruito la pubblica legittimazione alle proprie politiche imperialiste, alimenta un fenomeno mondiale pericoloso: chi aggredisce, vince. È quanto si intravede anche nella guerra fra Russia e Ucraina. Comunque la si guardi, questa settimana di “diplomazia frenetica” attorno alla guerra, non ha portato ad alcun risultato. Prima l’incontro in Alaska fra i presidenti statunitense Trump e russo Putin, poi la riunione a Washington di Trump con il presidente ucraino Zelensky e i capi di governo europei, hanno partorito cose già note e sensazioni sgradevoli. C’è l’impressione che il capo della Casa Bianca voglia chiudere in fretta, per tornare ad avere Putin seduto al tavolo degli amici. Per farlo, chiede all’Ucraina di cedere alla Russia pezzi di terra e di sovranità. Gli europei, dopo tre anni di morte e distruzione, dicono che questa soluzione non è praticabile, se non a fronte di garanzie sulla sicurezza e sul futuro di Kiev. Zelensky è stretto fra la necessità di far finire una guerra che dissangua il Paese e il bisogno di non far perdere la guerra al proprio popolo, aggredito da Putin. Nessuno, però, decide. Non ci sono mosse concrete.

Mosse che certamente non fa Putin, l’aggressore. Lui resta fermo, sulla sua posizione di “legittimità” di quella che continua a chiamare “operazione speciale”, non guerra. Mentre gli altri discutono, nel giorno 1.275 dall’invasione lui continua a far bombardare l’Ucraina e l’esercito russo continua lentamente - molto lentamente - ad avanzare. Anche Putin ha certamente bisogno di farla finita con questa guerra, ma l’incontro in Alaska lo ha di fatto legittimato come “vincitore” e le sue richieste territoriali trovano in Trump buon orecchio. Quello che si affaccia all'orizzonte è una Russia di fatto legittimata nella sua aggressione, con un’Ucraina ridotta a “stato cuscinetto” - lo ha detto Trump, ricordiamolo - privo di garanzie sul futuro. Le ragioni sull’assenza di certezze le ha spiegate benissimo Volodymyr Fesenko, capo del think tank Penta con sede a Kiev. “Un accordo di mutua assistenza con Washington e Bruxelles, che garantisca un rapido intervento militare nel caso in cui la Russia attaccasse l'Ucraina,  è difficilmente possibile. Stiamo parlando della Russia, paese dotato di armi nucleari”.

Raffaele Crocco

Sono nato a Verona nel 1960. Sono l’ideatore e direttore del progetto “Atlante delle Guerre e dei Conflitti del Mondo” e sono presidente dell’Associazione 46mo Parallelo che lo amministra. Sono caposervizio e conduttore della Tgr Rai, a Trento e collaboro con la rubrica Est Ovest di RadioUno. Sono diventato giornalista a tempo pieno nel 1988. Ho lavorato per quotidiani, televisioni, settimanali, radio siti web. Sono stato inviato in zona di guerra per Trieste Oggi, Il Gazzettino, Il Corriere della Sera, Il Manifesto, Liberazione. Ho raccontato le guerre nella ex Jugoslavia, in America Centrale, nel Vicino Oriente. Ho investigato le trame nere che legavano il secessionismo padano al neonazismo negli anni’90. Ho narrato di Tangentopoli, di Social Forum Mondiali, di G7 e G8. Ho fondato riviste: il mensile Maiz nel 1997, il quotidiano on line Peacereporter con Gino Strada nel 2003, l’Atlante delle Guerre e dei Conflitti del Mondo, nel 2009. 

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