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Il mito del sogno americano tra poesia e periferia
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Premetto che non mi si può annoverare tra gli entusiasti ammiratori del Festival dell’Economia, per svariate ragioni che non è questo il luogo di approfondire. Quando però sul programma con lo scoiattolo arancione l’occhio viene catturato dal titolo “Sogni americani: dal grande Gatsby a Bruce Springsteen”, una fan (e questa volta sì sfegatata) del Boss del New Jersey non poteva non andare a curiosare. Così ho fatto, e se devo dire il vero sono arrivata in sala un po’ infastidita dai commenti captati per caso per strada, che liquidavano come “tenera” l’alternativa dell’Oltreconomia Festival, sorvolando con nonchalance e superficialità sull’entusiasmo, l’impegno e la profondità di pensiero che anima invece le proposte provenienti “dal basso” e che si avvicinano decisamente di più alla mia sensibilità. Mettendo però da parte lo spirito polemico che mi bussava dentro e con l’intento di godermi una conferenza come semplice uditrice, ho atteso l’inizio dell’incontro. Incontro che, devo dire, valeva però davvero la pena di essere condiviso e raccontato, non foss’altro per il fatto che l’ospite principale era un professore universitario che nel mondo accademico ha fatto entrare una rockstar, dedicandole un intero corso e annoverandone le canzoni tra i “libri di testo”. Per questo motivo alla fine appunti ne ho scarabocchiati parecchi, anche se in maniera improvvisata e creativa sul retro di uno scontrino del benzinaio (striscia di carta che fortunatamente questa volta non si è rivelata così inutilmente lunga).
Il relatore al tavolo era Alessandro Portelli, storico, critico musicale e anglista, considerato tra i fondatori della storia orale, che ha scelto di aprire la chiacchierata con The River, riscontrando il favore complice di chi nel pubblico la canticchiava sommessamente. The River, per chi non ha presente la canzone (1980), apre così: “I come from down in the valley where mister when you're young / They bring you up to do like your daddy done”. Alla faccia della mobilità sociale, filo rosso di discussione dell’edizione 2015 del Festival! Crescere significa in poche battute “fare quello che tuo padre ha fatto”. Addio alla possibilità di una vita migliore allora? In un certo senso sì, ma non ovunque e non sempre in maniera così dolorosa.
Partendo da questo spunto, Portelli ha sviluppato un’interessante panoramica socio-musicale sul sogno americano, ricordando fin da subito due elementi niente affatto trascurabili: per prima cosa, il sogno americano non va ricondotto a un diritto alla felicità, ma meglio al diritto di perseguire la felicità (pursuit of happiness); questo invito alla speranza, inoltre, non appartiene alla Costituzione americana, bensì a un documento programmatico com’è la Dichiarazione di Indipendenza del 1776.
Dai testi di Springsteen, specchio dell’ultimo quarantennio operaio americano, il sogno ne esce però come un runaway American dream (Born to run), un fuggiasco che ci si suda a fatica nelle strade degli States e che ha il sapore salato di una promessa non mantenuta - basti pensare a canzoni come The Promise o Factory per avere chiara la ciclicità delle speranze infrante, che nemmeno nei toni più dolci di My hometown lascia spazio al dubbio. L’immobilità regna sovrana, altro che mobilità! Se al “sogno americano” corrisponde l’idea che i figli possano avere una vita migliore rispetto a quella dei genitori ci aiuterà sapere che gli Stati Uniti sono attualmente al terzo posto nella classifica dei Paesi con minor mobilità sociale (dopo Regno Unito e, indovinate un po’, Italia). Se poi di mobilità sociale è rimasta traccia, si tratta di mobilità al ribasso, che ha una direzione down-bound (non a caso Portelli cita Downbound train).
A chi far dunque risalire quest’assenza di possibilità, strettamente legate al mondo del lavoro? “Lately there ain’t been much work on account of the economy” (sempre The River), il lavoro non c’è “a causa dell’economia”, parola altisonante che zittisce frustrazioni e sconfitte e raccoglie, in maniera sommaria ma in apparenza e a sufficienza soddisfacente, la spiegazione di congiunture altrimenti ingiustificabili.
Bruce Springsteen si inserisce a pieno titolo nella tradizione di denuncia di Furore di Steinbeck e, come appunto da titolo, de Il grande Gatsby di F.S. Fitzgerald. Il sogno di ricchezza degli anni ’20 è fare il gangster e, a quanto pare, non è così lontano dalle prospettive attuali cantate dal Boss, da Easy money a Harry’s place alla leggendaria Darkness on the edge of town, dove si esplicita in maniera inappellabile che nella buona vita o ci nasci, o ti ritrovi ad arraffarla come puoi (some folks are born into a good liffe / other folks get it anyway, anyhow). Perché, a quanto pare e purtroppo, la mobilità non ha nulla a che vedere con l’etica del lavoro (Backstreets) e il futuro dei figli dipende ancora dal reddito dei genitori.
Forse allora che quel sogno americano dovremo chiamarlo “sogno svedese” o “sogno austriaco”, nel tentativo realista di riportare alla credibilità quei sentimenti che il solo nominarlo ci aizza nel cuore? Probabilmente sì, ma in questa operazione di concretizzazione si perde tutta la poesia. Ed è in fondo proprio di poesia che stiamo parlando, la grande assente da testi come la Costituzione Italiana, strumento molto più prezioso di una programmatica Dichiarazione, ma decisamente meno evocativo, quando in quell’enunciato un po’ freddo si affida alla Repubblica il “compito […] di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. (art. 3)
Portelli, il cui nuovo libro in uscita in estate si intitolerà proprio Badlands, definisce “geniale” l’utilizzo in ambito politico del gergo poetico (non quindi quei cacofonici “ostacoli di ordine economico e sociale”, ma la dolcezza della “felicità”) ed è anche su questo che si gioca il ruolo degli storytellers di ieri e di oggi, al punto da relegare quasi in secondo piano il fatto che la forbice della distanza si apra sempre di più tra la promessa e la sua realizzazione.
Portelli cita Nina ti te ricordi di Gualtiero Bertelli (1977) proprio per mettere in luce quanto diversi siano gli esiti sociali della “politica della poesia”: per un operaio italiano rinfacciare una promessa inesaudita non è possibile, perché a lui non è stato mai promesso nulla; il suo collega proletario americano, invece, può appellarsi a quel “diritto a perseguire la felicità” che tanto appartiene alla sua cultura, può sentirsi tradito per una promessa non mantenuta e può ancora provare a farcela.
E di nuovo è Springsteen a fare luce su questo aspetto con la dote di vibrante sintesi che gli appartiene: “Is it a dream, a lie if it don’t come true, or is it something worse / that sends me down to the river / though I know the river is dry”. Sogno, bugia, o addirittura qualcosa di peggio che ci fa continuare ad andare al fiume, anche se sappiamo che il letto è ormai asciutto? In effetti le occasioni di far esplodere le frustrazioni non sono rare (Jack of all trades, The promised land), e nascono per lo più in seno alla società degli infiniti consumi che spinge il poor man ad aspirare alla ricchezza, il rich man a voler essere re e il re a non essere soddisfatto fino a che non governa su tutto (Badlands). Dinamiche, è vero, che inevitabilmente logorano anche i sogni, ormai differiti. La domanda passa diacronicamente di bocca in cuore attraverso gli anni, e viva resta soltanto la possibilità di sperare. Qui infatti si situa la chiave di volta del ragionamento: la promessa può anche essere falsa, ma io sono vero. Si tratta di un passaggio fondamentale, che sposta l’attenzione dall’oggetto-sogno al soggetto-sognatore, nel quale rimane attiva l’offerta poetica (Glory days) della speranza (Working on a dream, Dream baby dream).
Come sostituire quindi quel sogno americano diventato per l’Italia un traguardo politico-sociale (si pensi a Ellis Island)? La differenza essenziale tra il sogno italiano e quello americano non è l’Atlantico a marcarla. E’ quella promessa, interpretata in Italia a livello di classe e quindi legata alla necessità di risollevarsi collettivamente, e vissuta invece, al di là del mare, come possibilità per ciascuno di provare a mettersi in gioco, di avere una chance. E proprio su questo punto Portelli chiude l’intervento, ricordando la rima non infrequente tra chance e dance, come se le possibilità fossero davvero una rima baciata con la danza, che lascia spazio al disincanto ma continua a volteggiare.
Anna Molinari

Giornalista freelance e formatrice, laureata in Scienze filosofiche, collabora con diverse realtà sui temi della comunicazione ambientale. Gestisce il progetto indipendente www.ecoselvatica.it per la divulgazione filosofica in natura attraverso laboratori e approfondimenti. È istruttrice CSEN di Forest Bathing. Ha pubblicato i libri Ventodentro (2020) e Come perla in conchiglia (2024). Per la testata si occupa principalmente di tematiche legate a fauna selvatica, aree protette e tutela del territorio e delle comunità locali.