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Il grande imbroglio della sostituzione etnica
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Foto: Clay Banks da Unsplash.com
Troppo facile pensare, oggi, che il veleno che si nasconde generalmente nell’utilizzo del lemma “etnia” e dei suoi derivati, dagli stupri consumati nella ex Jugoslavia o in Ruanda fino alle cene “alternative”, sia attribuibile solo alle teorie cospirazioniste rispolverate dalla sagacia del ministro dell’agricoltura Lollobrigida. Il cognato più famoso della nazione, che non può aver certo guidato il Fronte della Gioventù della provincia romana fino al 1995 in virtù della nobile parentela, non è affatto il primo sostenitore in Europa della Teoria della Grande Sostituzione, agitata da tempo e con furore contro femministe e migranti soprattutto nell’Est europeo. Quel che ci segnala qui l’analisi esemplare di Annamaria Rivera, riprendendo studi e testi rigorosi ancora attualissimi che nell’antirazzismo italiano e francese hanno fatto scuola per decenni, va però ben al di là della denuncia delle grossolane elucubrazioni di qualche ministro del governo Meloni, così come è ben lontano del futile richiamo a un linguaggio politicamente “corretto”. Riguarda l’attribuzione agli «altri», umani e non, di una natura diversa, da assoggettare più o meno benevolmente, assai radicata perfino in ambienti ritenuti insospettabili di simpatie razzistoidi. Nei processi di alterizzazione e reificazione, infatti, quasi sempre «etnici» sono gli altri/le altre, cioè coloro che, discostandosi dalla norma e dalla cultura dominante vengono percepiti/e come differenti, particolari, marginali, periferici, arcaici, attardati o anche in via d’estinzione. Quando riusciremo a comprendere finalmente che, al di là dell’emergenza che certo rappresentano per la società e la cultura politica ministri come Salvini o Minniti, per i cambiamenti di cui abbiamo davvero bisogno dobbiamo farla finita con le semplificazioni e serve una profondità dei concetti davvero “altra”?
Un lemma che andrebbe decisamente abbandonato, al pari di “razza”, è quello di etnia, che, invece, pur avendo, in realtà, una valenza discriminatoria, continua a ottenere una straordinaria fortuna, perfino in ambienti intellettuali, oltre che di destra.
Eppure, a decostruire questo pseudo-concetto e a mostrarne la valenza e il significato discriminatori sono comparsi, nel corso del tempo, alcuni volumi scientifici. Il più noto, L’imbroglio etnico (Dedalo, Bari 2012), strutturato per parole-chiave, del quale sono ispiratrice e co-autrice insieme con lo storico René Gallissot e l’antropologo Mondher Kilani, ha conosciuto ben tre edizioni: la prima, in francese e in dieci parole-chiave, fu pubblicata nel 2000; la seconda, comparsa nel 2001 in italiano e in una versione più ampia (in quattordici parole-chiave), ha conosciuto ben tre ristampe, l’ultima delle quali nel 2012.
Ciò malgrado, un tale lavorio intellettuale sembra non aver suscitato alcun dubbio circa i significati e l’opportunità dell’utilizzo di “etnia”. È per questa ragione che propongo qui la sintesi di una delle quattordici parti che compongono il volume, tutte introdotte da parole-chiave: è quella, per l’appunto, su Etnia-etnicità.
Nel parlare comune, nel linguaggio mediatico e talvolta perfino in quello scientifico, “etnia” ed “etnico” sono adoperati per designare sinteticamente, con un’unica parola, gruppi di popolazione immigrata e minoranze che si distinguerebbero dalle maggioranze per diversità di costumi e/o di lingua, nonché per la loro provenienza, per le loro culture, modi e stili di vita. In realtà, chi abusa del vocabolario etnico intende alludere a qualche forma di differenza fondamentale e irriducibile: che sia quella data dai caratteri somatici, oppure da una «essenza» culturale premoderna o addirittura da qualche fondamento ancestrale. V’è anche chi ritiene che «etnia» sia il termine più appropriato per nominare le differenze senza ricorrere al vocabolario detto razziale; v’è chi lo reputa o lo «sente» più specifico e pertinente di quello di cultura, meno svalutativo e dunque politicamente più corretto di «tribù».
Vi sono poi perfino alcuni studiosi pronti a sostenere che il lemma “etnia” avrebbe addirittura inaugurato una valutazione delle diverse parti costitutive dell’umanità più razionale e giusta, più neutra e a-valutativa di altri. In realtà, il vocabolo cela sovente la convinzione o il pregiudizio che le differenze fra culture e modi di vita si fondino su qualche principio ancestrale, su qualche identità originaria; spesso, in realtà, viene adoperato come sinonimo eufemistico di “razza”.
In ogni caso, l’uso del termine e della nozione riflette la divisione netta istituita fra la società cui appartiene l’osservatore (ritenuta normale, generale e universale) e altri gruppi e culture. Quasi sempre «etnici» sono gli altri/le altre, che, discostandosi dalla norma della società dominante e della cultura maggioritaria, sono percepiti/e come differenti, particolari, marginali, periferici, arcaici, attardati, in via d’estinzione o “soltanto” non conformi alla norma nazionale.
Un impiego del tutto particolare del termine, per auto-attribuzione («etnici siamo noi») da parte di settori della società dominante, è quello del Front national in Francia e, in Italia, della Lega Nord e di altre formazioni di destra, le quali parlano rispettivamente di «etnia francese» e di «etnia padana».
L’etnicizzazione è un processo non solo di riconoscimento o d’invenzione di differenze culturali, ma anche di classificazione surrettizia, potremmo dire, di gerarchie sociali, economiche, politiche. Etnicizzando dei gruppi sociali, infatti, si tende a mascherare la loro posizione di subordinazione o emarginazione rispetto alla società globale.
La cronaca della guerra fratricida nella ex Jugoslavia ha rappresentato il trionfo del modello e delle designazioni etniche, che in tal modo si sono affermati come un indiscutibile dato di fatto e si sono definitivamente consolidati nel linguaggio corrente.
Il che ha concorso non poco alla costruzione delle ideologie che hanno sorretto e mascherato le ragioni della sanguinosa guerra civile col suo orrendo corredo di reciproche «pulizie etniche» (nonché dell’ideologia che è servita a dissimulare gli scopi della guerra «umanitaria» della Nato nei Balcani); e ha condotto all’artificiosa separazione di popolazioni che avevano per lungo tempo convissuto e condiviso territorio, lingua, costumi, abitudini, progetto e istituzioni politiche...