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Il collasso e la nostra inerzia
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Foto: Ante Hamersmit da Unsplash.com
In giugno l’European Laboratory of Political Anticipation, think tank che, da una prospettiva indipendente, prova ad analizzare e anticipare gli sviluppi economici globali ha scritto che stiamo andando verso una crisi totale di una civiltà vecchia di 500 anni. Già quest’anno potrebbe prodursi una rottura, di fronte alla paralisi dei governi, a un impoverimento generalizzato senza precedenti, a carestie e disastri “naturali”, che configurano un collasso potenziato dalla crescita insostenibile delle disuguaglianze. Il problema, sostiene Raúl Zibechi, è che la transizione verso una nuova organizzazione sistemica non è stata preparata, quindi avverrà in modo incontrollato e probabilmente molto drammatico. Ciò che lo sconcerta e preoccupa di più è però la scarsa reazione dei settori più colpiti dal collasso in corso. Al di là di qualche caso isolato, scrive, la tendenza principale è verso l’inerzia, il ritorno a una normalità che, sotto sotto, tutti e tutte sembra proprio che vogliamo. Le ragioni sono molte e diverse. Una è che le vecchie forme di azione collettiva, coniate soprattutto dal movimento operaio, sono ormai insufficienti e obsolete di fronte alle sfide attuali. Una nuova cultura politica, però, non può nascere da un giorno all’altro, anche se ci sono esperienze territoriali promettenti. Decenni di democrazia e progresso hanno anestetizzato buona parte della popolazione, che continua a credere che lo Stato o i leader politici ci salveranno o che il denaro servirà a qualcosa nei momenti estremi del collasso. Sette anni fa gli zapatisti hanno segnalato l’imminenza di una tempesta sistemica, ma pochi hanno capito l’urgenza della chiamata a organizzarsi.
Che l’umanità stia cominciando a risentire della confluenza di crisi e pandemie che configurano una situazione di caos o collasso della vita sul pianeta, sembra fuori discussione. Che le classi dominanti facciano il loro gioco per rimanere nella loro posizione di privilegio e che i politici abbiano poca intenzione di muoversi, sembra altrettanto evidente a gran parte della popolazione.
Ciò che sconcerta e provoca angoscia è la scarsa reazione dei settori più colpiti dal collasso in corso. Stiamo assistendo a manifestazioni, scioperi e persino ad alcune rivolte di natura insurrezionale, come quella che ha di recente investito l’Ecuador, ma la tendenza principale è verso l’inerzia, verso il ritorno a una normalità che, sotto sotto, tutti e tutte vogliamo. Le ragioni dell’assenza di risposte all’altezza delle sfide che abbiamo di fronte sono molto diverse. Una di queste è che le vecchie forme di azione collettiva, coniate soprattutto dal movimento operaio, sono ormai insufficienti di fronte alle sfide attuali. Una nuova cultura politica non può nascere da un giorno all’altro, anche se ci sono esperienze territoriali che sono assai promettenti.
Giorni fa l’European Laboratory of Political Anticipation [Laboratorio Europeo di Anticipazione Politica], un think tank [centro di pensiero] europeo che si dedica ad analizzare e anticipare gli sviluppi economici globali da una prospettiva europea indipendente, ha messo in guardia su alcune questioni centrali nell’editoriale del suo bollettino del mese di giugno.
La prima è che siamo stiamo andando verso una crisi totale di una civiltà vecchia di 500 anni, che ci condurrà a capofitto in un nuovo medioevo globale («2023 – 2030 : Phase terminale de l’apocalypse “ennuyeuse”». Al di là del riferimento più che discutibile a quel periodo della storia presunto oscuro, il grande problema è che la transizione verso una nuova organizzazione sistemica non è stata preparata e, quindi, non avverrà in modo controllato.
In breve, gli anni che seguono possono essere drammatici. Il Laboratorio stima che già quest’anno può prodursi una rottura, di fronte alla paralisi dei governi, alla scarsità, a un impoverimento generalizzato senza precedenti, a carestie e disastri naturali, che configurano un collasso potenziato dalla crescita insostenibile della disuguaglianza.
La seconda è la questione centrale: crisi potenzialmente terrificanti e senza precedenti storici si susseguono senza avere un impatto irreversibile sulla nostra vita quotidiana, il che diminuisce la paura e fa sì che le persone finiscano per riprendere il normale corso della loro vita. Questo problema ci interpella in pieno come movimenti e come persone anticapitaliste. Il disastro a cui stiamo assistendo ci trova impreparati ad affrontarlo. Uno svantaggio che può essere superato con organizzazioni collettive territoriali, in grado di garantire la sopravvivenza e la vita in tempi di morte e distruzione. La crisi in Ucraina ci insegna che scommettere sugli Stati, come fanno le sinistre europee, è una cattiva strada. Se non ci prepariamo a questa situazione, i danni possono essere enormi...