Il NO dell’Italia alla pena di morte

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Da 20 anni, giorno più giorno meno, l’Italia ha detto ufficialmente “NO” alla pena di morte. E se con “ufficialmente” si intende secondo norme giuridiche vincolanti a livello internazionale, le due chiare lettere maiuscole indicano un impegno solenne dello Stato e senza deroghe di alcun genere. In verità è dall’adozione della Costituzione repubblicana, in vigore dal 1948, che lo Stato italiano ha abolito la pena di morte, ma con la ratifica il 14 febbraio 1995 del Secondo Protocollo ONU al Patto internazionale sui diritti civili e politici ha voluto fornire maggiori garanzie ai cittadini di questa scelta abolizionista. Da allora è certo che il massimo della pena prevista dal Codice italiano è l’ergastolo, senza la possibilità che siano sancite eventuali disposizioni eccezionali per ragioni di pubblica sicurezza o speciali sanzioni correlate al Codice penale militare di guerra. Peraltro a quest’ultimo riguardo, solo nell’ottobre 2007, a causa delle proverbiali lungaggini del sistema legislativo italiano, si è proceduto a recepire tale abolizione, con la soppressione dell’articolo 27 della Costituzione italiana concernente la pena di morte “nei casi previsti dalle leggi militari di guerra”.

L’ONU non è stata l’unica organizzazione a indurre gli Stati membri ad abrogare la pena di morte dalle sanzioni possibili del sistema statuale penale, o addirittura in caso di reati civili. Negli stessi anni anche l’Organizzazione di Stati Americani (OAS) ha promosso un Protocollo alla Convenzione americana sui diritti umani che contempla l’abolizione della pena di morte, che però ha avuto un successo limitato in termini di adesioni degli Stati membri. Speciali protocolli integrativi alla Convezione europea sui diritti umani erano stati invece precedentemente adottati dal Consiglio d’Europa per l’abolizione della pena di morte: se il Protocollo n. 6 del 1983 circostanzia l’abolizione al tempo di pace, il Protocollo n. 11 del 1994 emenda la possibilità degli Stati aderenti di porre deroghe di alcun genere al momento della ratifica, infine il Protocollo n. 13 del 2002 sancisce l’abolizione della pena di morte in ogni circostanza, sia in tempo di pace che di guerra. Una disposizione che, salvo le mancate ratifiche di Russia, Azerbaijan e Armenia, ha recepito una chiara posizione dei restanti 44 Stati membri del Consiglio d’Europa e dunque dell’intero continente. Una conferma in tal senso è venuta dalla recente decisione di non contemplare la pena capitale tra le possibili pene per un imputato sottoposto alla Corte Penale Internazionale o ai Tribunali Penali Internazionali per la Ex Yugoslavia, il Ruanda, la Sierra Leone e il Libano e riconosciuto colpevole di gravi reati, quali genocidio, crimini di guerra o contro l’umanità.

Ci si domanda dunque come sia possibile oggi rinnegare o rivedere quella che appare una solida tradizione europea garantista dei diritti civili dell’imputato sottoposto a giudizio, recepita sin dalla Magna Charta Libertatum di cui quest’anno ricorre l’ottavo centenario fino alle forme di umanizzazione delle pene promosse dall’Illuminismo e favorite anche dal fortunato opuscolo “Dei delitti e delle pene” di Cesare Beccaria. La proposta, per quanto isolata, di reintroduzione della pena di morte in Europa per reati particolarmente efferati non può dunque che suscitare clamore. La morte di 77 persone negli attentati che sconvolsero la Norvegia il 22 luglio 2011, con una autobomba a Oslo vicino ai palazzi governativi e poi sull'isola di Utøya al campus della sezione giovanile del Partito Laburista Norvegese, è valsa al “compiaciuto” assassino, Anders Behring Breivik, 21 anni di carcere (prorogabili), il massimo consentito dal sistema penale norvegese. Poche voci si alzarono per chiedere una condanna più dura, anche la pena capitale abolita nel Paese dal 1905, ma rimasero del tutto isolate. Diversa è stata invece la reazione mediatica seguita ai recenti attentati di gennaio a Parigi, che hanno indotto la leader del Fronte Nazionale, Marine Le Pen, a chiedere un referendum sul ripristino della pena di morte in Francia, “uno strumento necessario nell’arsenale giuridico di un Paese”. Una proposta caduta anch’essa nel vuoto. Assente invece è stata la risposta dell’Europa dinanzi alla reintroduzione della pena di morte nei territori dell’Ucraina controllati dai separativi filorussi dell’autoproclamata Repubblica di Donetsk.

Le ragioni dell’abolizione della pena di morte sembrano però avere ancora la meglio in Europa. La tutela del diritto “supremo” alla vita si unisce alla volontà di sopprimere ogni forma di tortura e di dare le migliori garanzie di giustizia all’imputato e alla comunità civile tramite una riabilitazione del condannato. Del tutto ipocrita appare dunque alle orecchie dei molti sostenitori europei delle campagne di Amnesty International, che si batte per l’abolizione della condanna a morte, l’espressione “esecuzione umana”, che appare un vero e proprio ossimoro. La lotta per una moratoria della pena di morte sembra fare passi in avanti, grazie alle recenti forme di boicottaggio attuate da numerose case farmaceutiche che hanno deciso di non fornire i prodotti adoperati per le iniezioni letali negli Stati Uniti; l’inefficacia del cocktail mortale in recenti esecuzioni ha condotto ad esiti a dir poco scioccanti, portando di nuovo in auge il dibattito internazionale sull’opportunità o meno del riconoscimento della pena capitale. E per molti passi in avanti c’è anche qualcuno indietro: il 18 gennaio scorso sono stati condannati a morte in Indonesia sei trafficanti di droga dopo una moratoria osservata dal Paese di ben 5 anni.

Nondimeno i brutali assassinii commessi dal cosiddetto Stato Islamico nell’area mediorientale, promossi attraverso i social media, hanno potenziato la riflessione internazionale sulle esecuzioni extragiudiziarie, sommarie e arbitrarie per ragioni discriminatorie su qualsiasi base: da quelle relative all’orientamento sessuale della vittima a quelle di genere o di confessione religiosa. Un lento ma fondamentale processo di riflessione sta levandosi anche in quelle parti del mondo in ancora si ritiene di vendicare la barbarie con altrettanto barbare forme di omicidio. Un auspicio affinché tale processo giunga presto a forme di maturazione politica.

Miriam Rossi

Miriam Rossi (Viterbo, 1981). Dottoressa di ricerca in Storia delle Relazioni e delle Organizzazioni Internazionali, è esperta di diritti umani, ONU e politica internazionale. Dopo 10 anni nel mondo della ricerca e altrettanti nel settore della cooperazione internazionale (e aver imparato a fare formazione, progettazione e comunicazione), attualmente opera all'interno dell'Università degli studi di Trento per il più ampio trasferimento della conoscenza e del sapere scientifico.

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