Identità e crisi globale: piccole reti che tessono fili

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“Stiamo subendo una crisi che viene da fuori”. Tutti, almeno una volta, lo abbiamo pensato. Di fronte ad una congiuntura improvvisa, che nessun addetto ai lavori è stato in grado di prevedere, ci siamo sentiti travolti da qualcosa di estraneo, più grande di noi. Ma che significa fuori? Fuori da quale confine? Lontano da quale comunità? È spontaneo e comprensibile, al cospetto di una minaccia, fare quadrato attorno ad un gruppo ed individuare il nemico al suo esterno, identificandoci attorno alle certezze più vicine. Ma all'atto pratico, aiuta? O è forse tempo, parlando di scelte economiche, di sostituire l'inflazionato binomio vicino-lontano (o interno-esterno, se preferiamo) con dall'alto-dal basso?

Spieghiamoci. Viviamo nell'epoca della globalizzazione, quella che ci permette di bere caffè del Guatemala, investire in Cina e comprare cucine svedesi. Da consumatori e investitori, consapevoli o meno, possiamo nel nostro piccolo influenzare il lato opposto del pianeta. Scelte individuali con ricadute globali, oltre confini geografici, temporali e culturali facilmente valicabili. Eppure di scelte individuali si parla poco, affrontando il tema crisi. Cause e soluzioni vengono relegate ad un affare da “piani alti”, quelli dei grandi gruppi bancari, degli organismi internazionali, delle stanze governative. Ma più in basso, “sulla strada”, esiste un motore alimentato da piccoli commercianti, agricoltori, massaie, artigiani. E dalla società civile, che produce e consuma.

I due piani non sono in contrapposizione l'uno contro l'altro, ma una visione del sistema economico che vuole definirsi completa non può prescindere dal considerarli entrambi. La Banca Mondiale e il mercato sotto casa, il blackberry e il sacchetto del pane.

Non se lo sono dimenticato i premi Nobel George Akerlof e James Heckman. All'interno dell'edizione 2009 del Festival dell'economia di Trento, dal titolo “Identità e crisi globale”, analizzeranno l'influenza macroeconomica di comportamenti individuali. Accanto a loro, tra gli altri, John Talbott, della Anderson School of Management, ci parlerà di crisi finanziaria ed economia dal basso; Euclides Mance, consulente del Governo brasiliano, metterà in evidenza il ruolo delle reti di economia solidale, come risposta alla crisi; Leonardo Becchetti (Banca Etica), Monica Di Sisto (Fairwatch) e Paolo Nerozzi (PD) ci spiegheranno come il ripensamento dei nostri modelli di consumo e risparmio possa contribuire a cambiare l'economia.

Argomenti non più di nicchia. Gli attori sono, dunque, molti di più di quelli che pensiamo: non solo il top manager in giacca e cravatta ma anche il fornaio in grembiule. E nella mischia ci siamo anche noi.

Come ricetta per ripartire, niente di apocalittico. È vero, bisogna pensare di cambiare quelle regole che hanno permesso ad un gruppo di pochi di raggiungere guadagni facili ed immediati, a danno di molti; e soprattutto, di farle rispettare, quelle regole. Ma, lo ricorda anche Tito Boeri, non si tratta di mettere in discussione un modello, bensì di trovare il suo punto di equilibrio e sostenibilità, fatto appunto di regole, controlli e comportamenti responsabili.

Non tutti i mali vengono per nuocere, recita un vecchio adagio. Dal fondo della crisi abbiamo l'occasione di spingere per una svolta culturale decisiva: quella che riconosce il ruolo chiave di chi fa (e non solo subisce) economia dal basso. Con strumenti e strutture di successo. Pensiamo al fair trade, alla microfinanza, allo slow food, ai gruppi di acquisto solidale, all'agricoltura biologica, alla responsabilità sociale d'impresa. Strumenti economicamente convenienti (in quanto sostenibili), ancor prima che eticamente preferibili. La domanda di economia solidale cresce, lo dimostra il raddoppio in Banca Etica del numero di propri dipendenti, nel giro di pochi mesi.

E allora, perché non insegnarlo nelle università che significa finanza etica, consumo sostenibile, commercio equo, evidenziando l'intreccio che lega lo sviluppo economico a quello sociale ed ambientale? Non solo Pil , RoE, Nasdaq. Accanto a questi, affiancare indicatori (come l'ISU) che tengano in considerazione il rispetto dei diritti umani e dell'ambiente, il tasso d'occupazione, il livello d'istruzione, che sappiano separare le transazioni lecite da quelle illecite.

Uscire dalla crisi. Non si chiedono misure tampone, accettabili solo nel breve, né, come detto, stravolgimenti del sistema, in direzione di autarchia, protezionismo e antiglobalizzazione. Tutto il contrario, lo sguardo sul mondo è la risposta. Nel senso di piccole reti che a forza di tessere fili diventano grandi, non di transazioni speculative che fanno il giro del globo alla velocità di un click di mouse.

Think globally, act locally, è uno slogan piuttosto in voga per chi si affaccia sul mondo dell'imprenditoria. Ma l'agire locale si ripercuote sull'economia globale. Che ci piaccia o meno, siamo chiamati a tenerne conto. Non preoccupiamoci, in questo puzzle globale, se le regole valgono per tutti, nessuno ci ruberà l'identità.

Andrea Dalla Palma

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