I pacifisti, il governo e la 'crisi vicentina'

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Lasciamo stare il penoso tentativo di alcuni esponenti politici del centrodestra di fare un collegamento tra Brigate rosse, no-global e pacifisti, spalleggiati dai soliti giornali con manganello incorporato. È un'operazione oscena e basta. Lasciamo anche stare il perbenismo (che s'intravede, talora, anche in alcune parti del mondo ecclesiale) di chi associa sempre le manifestazioni di piazza - come quella del 17 febbraio a Vicenza, contro l'ampliamento delle basi Usa - alla violenza (anche quando non c'è). Sulla manifestazione di Vicenza vanno messe in fila alcune questioni. La prima riguarda il conflitto sociale. La seconda tocca il rapporto tra democrazia rappresentativa e democrazia partecipativa all'epoca del centrosinistra. La terza concerne la salute dei movimenti.

Sul primo punto. Non c'è dubbio che le basi americane dividono non da oggi i vicentini, i quali hanno tutto il diritto di esprimere i propri punti di vista e di cercare di affermare i propri interessi (la difesa del territorio o la difesa del portafoglio). Trattandosi di basi militari, non era difficile prevedere che alle spine locali si sarebbero sommate spine globali e, se volete, più ideologiche, connesse all'antimilitarismo (che ha una lunga storia in Italia, vero ministro Rutelli?), all'unilateralismo dell'amministrazione Bush in politica estera, alla guerra in Iraq, alla non risolta crisi afgana.

Il governo di centrosinistra ha quantomeno sottovalutato la portata della "crisi vicentina" e non è riuscito a trovare una mediazione che avesse il consenso degli attori locali. La faccenda è sfuggita di mano e si è complicata. Ma le responsabilità non sono del conflitto sociale, che è un'inevitabile modalità di espressione di cittadinanza, ma dell'inefficacia dell'azione dell'amministrazione locale e del governo.

Sul secondo punto. Un rapporto, anche burrascoso ma effettivo, con le espressioni della società civile e con i movimenti dovrebbe essere una carta in più per un governo di centrosinistra. Invece - anche in ragione del movimentismo strutturale di alcuni partiti della maggioranza, che irrigidisce l'esecutivo -, questa carta è rimasta inutilizzata. Con il rischio di allontanare dal Palazzo e dai partiti, caposaldo inaggirabile della democrazia rappresentativa, un segmento attivo e partecipativo della società italiana.

Sul terzo punto. Un movimento è in salute quando riesce a individuare, analizzare, contestualizzare e a portare all'attenzione dell'opinione pubblica problemi complessi, che possono riguardare tanto la geopolitica quanto il piano viabilistico di una città. Un movimento, poi, è più che in salute quando sa elaborare delle proposte concrete e le sa abbinare a varie forme di pressione (l'appello, la campagna, la piazza⅀). Insomma: isolare un problema, indicarne la soluzione, costruire la via che porta alla soluzione. Una logica dura (come sono duri i rapporti di forza nell'arena politica) che richiede radicalità e capacità di mobilitazione nel lungo periodo, ma anche competenza e senso della mediazione.

Il movimento pacifista e altromondista sa perfettamente che tirare in ballo per ogni questione l'imperialismo americano è fare un pessimo servizio alla causa della pace e agli impoveriti di ogni latitudine. Lo scacchiere è ben più articolato e accidentato, specie per noi cittadini del mondo che conta, che consumiamo gran parte dei beni della terra e che facciamo le guerre per continuare a mantenere alto il nostro tenore di vita.

Ben venga la critica alle basi militari Usa di Vicenza e, per estensione, alla politica dell'amministrazione Bush, peraltro invisa a buona parte dell'opinione pubblica Usa. Purché non ci si metta il cuore in pace con una manifestazione, purché non ci si accontenti di riempire la scena mediatica per un giorno. E purché non ci si ostini a pensare che basti la strofa di una canzone un po' datata - "buttiamo a mare le basi americane" - per cambiare la politica americana e quella italiana.

Editoriale di Nigrizia

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