Hate speech online: quando i “troll” siamo noi

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Stai per pubblicare una tua opinione o commento online, sotto un articolo o una discussione? Se proprio devi, forse allora non sarebbe male seguire il “consiglio propedeutico” che il fumettista Zerocalcare ci offre nelle tavole de “Il grande test sui social network”. In pratica, prima di cliccare su Invio, l’invito è a recarsi al bar più vicino e rivolgersi agli avventori con gli stessi termini usati su internet. “Se quando torni hai tutti i denti in bocca e le dita per digitare, procedi pure!” scrive il disegnatore, con la sua consueta ironia. E’ assodato, infatti, come online sembra si sia perso il freno inibitore e tutte le opinioni più feroci e gli insulti siano ormai leciti. Come se, solo perché si sta dietro uno schermo, la responsabilità personale di ciò che si dice e scrive vada ad attenuarsi. Sono i cosiddetti discorsi d’odio online (hate speech), ovvero frasi che incitano al pregiudizio, all’odio, alla paura, alle discriminazioni o anche alla violenza contro una persona o gruppo di persone sulla base di alcune caratteristiche: “razza”, età, genere, scelte sessuali, appartenenza linguistica, religiosa, culturale o sociale. Far fronte a questa deriva della rete è una delle sfide più difficili che le istituzioni, insieme alle grandi aziende dell’information technology, ai media e alla società civile devono affrontare, in bilico tra la necessità di arginare l’odio e il delicato confine con la libertà di espressione di cui la rete si è sempre assurta a baluardo.

Ma come siamo arrivati a questo punto? Si è discusso molto della recente scelta del Time di dedicare una delle sue ultime copertine ai “troll”, colpevoli, secondo la rivista, di aver “rovinato” internet trasformandolo in una “fogna di aggressività e violenza”. Nel linguaggio del web e dei social media la parola troll sta infatti ad indicare coloro che bazzicano nella rete con il solo fine di provocare e disseminare odio fra gli utenti. Li vediamo all’opera sulle pagine online dei giornali, nella sezione commenti, su Facebook e Twitter, spesso responsabili di interminabili “flame” (sorta di “risse virtuali” a suon di insulti) che rendono inutile qualsiasi tentativo di intavolare discussioni costruttive. Ma la colpa è veramente tutta loro? A farsi un giro sui social, si potrebbe quasi dire che siamo “sotto invasione” (altro che migranti!), talmente alta la quantità di persone che si comportano “da troll”. La persona “che ci è” è diventata indistinguibile da quella “che ci fa”, e oggi chi semina odio non ha nemmeno bisogno di nascondersi dietro un nickname anonimo (anche perché il più delle volte pensa di essere nel giusto).

Il successo della parola “webete” usata dal giornalista Enrico Mentana per rispondere a un utente che polemizzava in questo modo su terremoto ed immigrati è indicativa del fenomeno, con persone che spesso scrivono senza nemmeno conoscere l’argomento di cui si parla, commentano “il titolo”, ripetono per sentito dire bufale e luoghi comuni, si coalizzano contro le vittime designate, innescando a volte reazioni a catena di aggressività al limite della violenza. Tra i bersagli non mancano politici e personaggi pubblici, così come le categorie e i soggetti più vulnerabili. Basta leggere sotto qualsiasi articolo che tratti di immigrazione – anche nelle testate che non cavalcano quest’onda per scelta politica – per capire a che livello siamo arrivati: dal festeggiamento delle morti in mare all’invocazione dei forni crematori, e così via. Ma si può davvero dire di tutto, nel nome della libertà di espressione? Il titolo “L’odio non è un’opinione” della prima ricerca italiana su hate speech, giornalismo e migrazioni, non è stato scelto a caso. Curata da COSPE, nell’ambito del progetto europeo “BRIKCS” contro il razzismo e la discriminazione sul web, l’indagine si è concentrata soprattutto sui media per analizzare le ragioni di uno sdoganamento così ampio del comportamento razzista online.

Basata sull’osservazione, da gennaio a marzo 2015, dei siti di alcune tra le testate più note, ha constatato come anche i media abbiano una grande responsabilità in questa deriva, spesso incapaci di restituire un’immagine corretta di quello che sta accadendo e più in generale del fenomeno migratorio a livello globale e nazionale. L’indagine nota poi come spesso nelle community non sia presente “nessuna moderazione o forma di intervento da parte delle redazioni, nonostante le offese diventino molto pesanti e il discorso d’odio razzista non trova argini, se non quelli che la comunità dei lettori riesce a creare autonomamente”.

Ancora, altra categoria fortemente colpita dall’hate speech online sono le donne. Secondo la mappa dell’intolleranza, realizzata da Vox Osservatorio sui diritti analizzando principalmente il social network Twitter, sono oltre un milione i messaggi che le prendono di mira, quasi sempre con insulti e offese di natura sessuale. Su 2,6 milioni di tweet, rilevati tra agosto 2015 e febbraio 2016, 412.716 avevano un contenuto "negativo” e tra questi ultimi, il 63% conteneva termini più che "offensivi" verso le donne, il 10% verso i migranti, il 10,8% verso gli omosessuali, seguiti da quelli verso gli islamici (6,6%), le persone con disabilità (6,4%) e gli ebrei (2,2%). Lombardia, e Lazio sono risultate come le regioni più "intolleranti", con Roma e Milano al vertice della classifica delle città.

Non bisogna poi dimenticare il cyberbullismo, ovvero l’uso delle nuove tecnologie per intimorire, molestare, mettere in imbarazzo, far sentire a disagio o escludere altre persone. Secondo una ricerca dell’Istat ad esserne vittime sono soprattutto le ragazze adolescenti (il 7,1% delle ragazze tra gli 11 e i 17 anni che si collegano a Internet o dispongono di un telefono cellulare sono state oggetto di vessazioni). Comportamenti che possono avere ripercussioni anche gravissime sulla vita delle persone e per i quali andrebbe messa in atto una massiccia opera di educazione a partire dalle scuole e dalle famiglie.

Educazione in primis, dunque, ma anche social media policy e moderazione attiva, preparata e partecipata dei dibattiti online si rivelano così tra le priorità da mettere in campo per arginare la deriva aggressiva della rete (capace di accogliere anche esempi eccellenti di correttezza e buone pratiche). C’è chi punta il dito sulla “gratuità” e chi chiede un maggior controllo da parte delle società che gestiscono i servizi online. A questo proposito, è recente l’adesione da parte di importanti società (tra cui Facebook, Twitter, YouTube e Microsoft) ad un codice di condotta proposto dalla Commissione europea in cui i siti sono chiamati a cancellare i contenuti di natura “odiosa” dai loro portali entro 24 ore dalla notifica. Ma c’è già chi è preoccupato per la questione della libertà di espressione, e il tema non è da poco: “In questo modo – ha twittato ad esempio Jillian York, attivista dell’associazione sui diritti digitali Electronic Frontiers Foundation – le corporazioni ottengono ancora di più il controllo sulla nostra parola”.

Anna Toro

Laureata in filosofia e giornalista professionista dal 2008, divide attualmente le sue attività giornalistiche tra Unimondo (con cui collabora dal 2012) e la redazione di Osservatorio Iraq, dove si occupa di Afghanistan, Golfo, musica e Med Generation. In passato ha lavorato per diverse testate locali nella sua Sardegna, occupandosi di cronaca, con una pausa di un anno a Londra dove ha conseguito un diploma postlaurea, sempre in giornalismo. Nel 2010 si trasferisce definitivamente a Roma, città che adora, pur col suo caos e le sue contraddizioni. Proprio dalla Capitale trae la maggior parte degli spunti per i suoi articoli su Unimondo, principalmente su tematiche sociali, ambientali e di genere. 

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