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Grammatica dell’Ebola
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Si scrive Ebola, si legge Peste. Non che i due morbi siano legati da una qualche forma concreta di parentela: diverso l’agente patogeno -nel primo caso un filovirus, nel secondo un bacillo-; diversa la provenienza -il bacino africano del fiume Ebola, le steppe dell’Asia-; diversi persino i serbatoi naturali -pipistrelli della frutta e primati, ratti neri e furetti-; assai dissimili, infine, l’incubazione, la sintomatologia e le modalità di contagio. Eppure, i due mali possono dirsi fratelli: se non nella scienza e nel reale, nell’immaginario e nei timori. Occorre capire perché. Soprattutto, occorre capire cosa fondi questo spavento oscuro, e per più d’un verso ingovernabile, cui mal rimediano le rassicurazioni delle autorità sanitarie e politiche. Poiché l’Ebola, o se preferite la Peste, è sì un pericolo effettivo, come lo sono altre possibili sventure, dai terremoti alle alluvioni, ma è anche più di questo: è una metafisica.
I motivi dell’angoscia. È possibile che ad alimentare l’inquietudine, motivata o irrazionale, sia proprio il ricordo ancestrale, impresso nella carne e nella memoria collettiva, di quel flagello che segnò il punto più buio del medioevo della Storia e dell’inconscio: la grande moria, la morte nera, che si abbatté, senza preavviso, sull’Europa del Trecento, cancellando -in poco più di un anno- più di un terzo della popolazione continentale. Una persona su tre. In alcune aree, una persona su due. Ecco: noi siamo i nipoti di quei pochi e atterriti sopravvissuti. Siamo i figli della Peste, e il documento di quell’insidia scampata è iscritto in ogni fibra del nostro corpo: nelle cellule, nei geni. A ciò si aggiunga l’Arte, che ha trasfigurato e trasmesso quel terrore: esibendolo, esorcizzandolo. Un esorcismo che parla la lingua delle icone di San Rocco; del Boccaccio e del Manzoni; di Camus, Poe e Jack London; di Bergman e, financo, del cinema apocalittico hollywoodiano. E l’uomo, si rammenti, è sempre uguale a stesso: mutano il contesto e le ere, restano fissi i sentimenti. In questo, Natura è più forte del Tempo.
L’eterno ritorno. Non sorprende ritrovare nei resoconti della presente epidemia la narrazione familiare dei “Promessi Sposi”: storie di cari abbandonati, per timore del contagio; moribondi che si spengono d’inedia, per le strade -cfr. Repubblica-; fosse comuni insufficienti; sfiducia nei confronti dei sanitari; funzionari corrotti, per tacere la malattia di un congiunto -cfr. Wall Street Journal-; la presenza di monatti post-moderni, necessari e purtuttavia disprezzati dalla gente; addirittura il caso di un untore, che avrebbe scientemente infettato infermieri ed alcune prostitute. Nondimeno, la paura del forestiero, visto come possibile canale di trasmissione: una percezione atroce, che da noi ha sancito l’alleanza fra paura, ignoranza e campagne strumentali.
V’è anche dell’altro, nell’allarme Ebola. Due elementi, che superano, per orrore, ogni reminiscenza e ogni analogia; che rendono ogni patologia a carattere epidemico ben più crudele delle altre sciagure, di cui ci fa dono la vita. La prima: l’intangibilità del nemico; un’apparente immaterialità che fa perdere riferimenti e certezze ad un’umanità portata, per sua natura, a “misurare” le cose del mondo, a dar loro contorni precisi; si direbbe, biblicamente, a “dar loro un nome”. La seconda: la disumanità del male -e disumanità non è termine casuale- consiste proprio nel suo colpire al cuore il senso profondo di ogni umana necessità: fa dell’altro una potenziale minaccia, rompe i legami di solidarietà sociale, costringe gli uomini, cui la socialità è necessaria per riempire il quotidiano e dare un senso all’esistenza, a ricercare un innaturale isolamento. L’Ebola, la Peste e i loro affini danno luogo, in altre parole, ad una battaglia fra due opposte nature: l’insopprimibile istinto di sopravvivenza e il senso profondo di comunità, che trova ragione nell’altro e per l’altro. Da qui, la forte di tanta agitazione. Da qui, il sospetto incontrollato e -per il momento- ingiustificato. E se i fantasmi della mente si esprimono con un gergo, che non è quello della coscienza, risulta indispensabile capirne gli strumenti. Perché la serenità presuppone il sapere. Perché la misura impone la conoscenza della grammatica dell’Ebola.