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Generare, non solo procreare
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Nelle settimane scorse infinite polemiche hanno accompagnato l’annuncio da parte del ministero della salute della celebrazione del “Fertility day”. Finalmente è passato, si potrebbe dire. La campagna di sensibilizzazione all’evento è stata a dire poco grottesca con “cartoline” che insistevano sulla necessità di affrettarsi nel generare prole perché “la bellezza non ha età, la fertilità sì”. Un messaggio dozzinale e retrivo, in un certo senso colpevolizzante. “Datti una mossa, non aspettare la cicogna”: questo uno degli slogan più criticati e messi alla berlina dalla satira sul web. Al di là delle intenzioni, il senso dei contenuti era immediato e intuibile: le donne italiane non fanno figli perché hanno altro a cui pensare. Per indolenza, per mancanza di valori, per la paura di perdere la propria salute. Una questione di volontà dunque. Il maschio – a cui pure la campagna era rivolta – rimane sullo sfondo. Ad osservare, ad essere un fuco indispensabile solo al momento della fecondazione. Poi nulla.
Abbiamo dedicato due articoli di Unimondo al tema, da un’ottica femminile e da un’ottica maschile. Come prevedibile, i ragionamenti erano coincidenti.
Già il titolo della giornata sembra una scelta infelice. Perché parlare di “fertilità” e non di natalità o genitorialità? Si sono confusi i piani. Giustamente la ministra Lorenzin ha parlato del tema dell’infertilità: una questione sanitaria che non ha nulla a che vedere con il contesto sociale italiano veramente sfavorevole alla famiglia con figli. L’insistenza su aspetti biologici – sanitari, utilissima in altri contesti, risulta fuorviante se applicata a una decisione fondamentale per la vita di una coppia. In questo ambito la biologia c’entra poco. Bisognerebbe parlare di tutt’altro, ad aspetti di natura esistenziale, economica, sociale, politica. Di qui la giusta e corale indignazione.
Tuttavia, a mio avviso, è opportuno ritornare sull’argomento perché quando avvengono questi passi falsi, è molto istruttivo comprendere il perché di una reazione così immediata e veemente. Forse ha toccato un nervo scoperto? A volte è opportuno che avvengano gli scandali. Penso che quanto abbia urtato maggiormente le persone, e in particolare le donne, sia stato il fatto che lo Stato abbia voluto immischiarsi in questioni private, privatissime. Cosa sai tu governo del perché non voglio o non posso avere un figlio? Vuoi insegnarmi quello che devo fare? Non sono libera, adulta, consapevole, per prendere questo tipo di decisioni?
Il messaggio del governo era perdente in partenza perché pretendeva di dare lezioni. E il dogma individualistico imperante prevede una sola verità: io ho sempre ragione. I miei comportamenti sono sempre giusti. Se non ho un figlio, non è colpa mia. Sarà invece colpa delle circostanze esterne, della crisi economica, della mentalità maschilista collettiva, magari di una malattia. Magari invece dello Stato. Sempre lo Stato. Che ovviamente è recidivo per antonomasia. Esso deve garantire solo diritti, senza pretendere nulla. E uno Stato concepito in questo modo può pretendere di dire qualcosa in merito alla generazione dei figli? Assolutamente no.
Ritorniamo così al problema principale della nostra società, quello cioè della frammentazione. È sempre più difficile creare una comunità, pensarsi come comunità. A cominciare dalla coppia. Per avere un figlio bisogna soddisfare sempre più requisiti perché il nascituro dovrà essere perfetto, non avere difficoltà, crescere in un contesto privo di rinunce. Forse privo di obblighi. Quindi, nell’attesa di creare l’ambiente ideale, la maternità viene rimandata. Per poi “svegliarsi” in tarda età, desiderando a tutti i costi un figlio che, se alla fine arriva, si troverà con genitori “anziani” in partenza con uno scarto generazionale sempre più accentuato.
A mio avviso la fragilità dei nostri legami deriva dall’individualismo spinto, che permea la mentalità collettiva. In fin dei conti il figlio diventa un impedimento. Un limite alla nostra libertà. E perdere autonomia ci fa paura. Ma così non si rischia più, non si immagina un futuro diverso. Ci si inaridisce, come descritto bene da Giuseppe Milan. Il figlio invece diventa metafora del nuovo per eccellenza. Dell’imponderabile. Dell’eccedenza non preventivata e non preventivabile. La rottura del circolo vizioso dell’io. Certamente la generazione può avvenire in tanti modi non solo attraverso la procreazione biologica. Allo stesso tempo l’invecchiamento generalizzato della popolazione è un segnale di evidente decadenza.
Andando oltre i ragionamenti sociologici o filosofici, viene da chiedersi il perché sia proprio l’Italia ad essere il Paese europeo con la più bassa natalità. In fondo in Francia o in Svezia non hanno una visione del mondo molto diversa dalla nostra. Quindi non è soltanto una questione di mentalità. Di “valori”. Subentra anche il ruolo della politica. Ci vorrebbe proprio una politica capace di favorire legami di comunità. Anche in questo ambito però non sappiamo da dove partire: costruire più asili nido? Modificare il modello familiare? Cambiare un linguaggio intriso di violenza, sessismo e volgarità (utilizzato spessissimo anche dalle donne)? Dare più rappresentanza al genere femminile nelle istituzioni? Sono domande aperte.
Articolo apparso parzialmente sul quotidiano “Trentino”
Piergiorgio Cattani

Nato a Trento il 24 maggio 1976. Laureato in Lettere Moderne (1999) e poi in Filosofia e linguaggi della modernità (2005) presso l’Università degli studi di Trento, lavora come giornalista e libero professionista. Scrive su quotidiani e riviste locali e nazionali. Ha iniziato a collaborare con Fondazione Fontana Onlus nel 2010. Dal 2013 al 2020 è stato il direttore del portale Unimondo, un progetto editoriale di Fondazione Fontana. Attivo nel mondo del volontariato, della politica e della cultura è stato presidente di "Futura" e dell’ “Associazione Oscar Romero”. Ha scritto numerosi saggi su tematiche filosofiche, religiose, etiche e politiche ed è autore di libri inerenti ai suoi molti campi di interesse. Ci ha lasciati l'8 novembre 2020.