“GIOCO AUTENTICO” vs GAP (Gioco d’azzardo patologico)

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Del gioco d’azzardo patologico non si parla mai abbastanza. I danni che produce obbligano a non accontentarsi delle pur crescenti denunce provenienti da varie direzioni. Organi di stampa, ricercatori universitari, professionisti di ambito economico e sanitario, politici: tante voci che, fortunatamente, condividono e accentuano il senso di un allarme e l’urgenza di invertire una tendenza a lungo sottovalutata. E non è sbagliato insistere sulle ricadute sociali, sui rapporti con la malavita e sulla crescita della criminalità, perfino sulle ripercussioni di carattere economico, distruttive non soltanto per i giocatori e le loro famiglie ma, a lungo andare,  per la collettività tutta, per lo Stato. La cura è sempre più cara della prevenzione.

Credo che i danni più rilevanti e radicali non siano quelli sociali ed economici, di cui si parla in prevalenza. Questi sono conseguenze. Deve preoccupare innanzi tutto la distruzione della persona e, con essa, l’annientamento di responsabilità, progettualità, creatività, socialità, speranza: l’architettura portante della persona stessa va in frantumi, con tutto ciò che ne consegue.

Ristrutturare di sana pianta un edificio, a partire dalle rovine, è possibile ma molto arduo e complesso. A volte l’operazione fallisce. Similmente il rapporto patologie/terapie riserva non poche difficoltà e frequenti insuccessi. Va perciò sottolineata l’importanza, anche e in primo luogo, della prevenzione, dell’opera educativa spesso trascurata e dimenticata in ossequio alle urgenze del momento. “Certo – mi si potrebbe dire – parti proprio da lontano: il problema emergente è quello hic et nunc dell’individuo/giocatore schiacciato dalla sua compulsione patologica”. È vero, la prospettiva educativa deve partire da lontano, accedere per quanto possibile alla radice del problema, cogliere debolezze strutturali-culturali che stanno alle origini e tentare di impostare in altro modo le fondamenta. Per questo, faccio riferimento alla necessità di un risveglio pedagogico-culturale, e – forse stranamente - chiamo in causa un elemento paradossalmente assente nell’attuale dibattito sull’azzardo: proprio “il gioco”, ma quello autentico (non quello dell’azzardo, per il quale la definizione di “gioco” è del tutto inappropriata). Intendo il gioco spontaneo, in particolare quello infantile, il gioco che è sinonimo di infanzia. 

I più importanti studiosi dell’infanzia (da F. Fröbel, alle sorelle Agazzi, a M. Montessori, a J. Piaget)  hanno affermato che “il bambino è gioco”, inteso come azione libera, incondizionata, autonoma, il cui fine è in se stessa, nel proprio svolgersi. Il gioco muove dal mondo interiore del bambino e lo arricchisce mettendo in azione e unificando le funzioni psichiche, fisiche, cognitive, sociali e morali, quelle emotive e affettive, quelle creative e artistiche. Qui non voglio esaltare nostalgicamente i tempi lontani e definire l’oggi a tinte fosche.  È comunque evidente l’attualità della denuncia fatta concordemente da alcuni studiosi già più di trent’anni fa, all’inizio degli anni ottanta, con testi divenuti ben presto best-sellers, i cui titoli significativi erano “La scomparsa dell’infanzia” (Neil Postman), “Bambini senza infanzia” (Marie Winn), “Bambini in pericolo” (Vance Packard). Cito soltanto Marie Winn: “Di tutti i cambiamenti che hanno alterato la topografia dell’infanzia, il più drammatico è la scomparsa del gioco infantile (…). Al posto delle tradizionali gare infantili, che erano ancora in uso una generazione fa, al posto dei giochi di fantasia e di finzione (…), i bambini d’oggi si trovano la televisione e, più recentemente, i video-games” (pp. 87 ss.).

Naturalmente nei tre decenni successivi i “giochi” del tutto artificiali, eterodiretti, quelli che rispondono ad un modello meramente “esteriore”, che eccitano dall’esterno e mandano su di giri, hanno aumentato la loro influenza rendendo ancora più lampante la “fine del gioco” infantile autentico e, conseguentemente, “la scomparsa dell’infanzia”. Marie Winn citava già allora alcune possibili conseguenze, riferendosi a varie ricerche: “Gli psichiatri hanno constatato tra i bambini, negli anni più recenti, un notevole aumento di casi di depressione, uno stato sempre considerato antitetico alla natura dell’infanzia.  Questo fenomeno è forse collegato, almeno in parte,  al senso d’inutilità e di alienazione di cui oggi soffrono i bambini e che era certamente assente dalla loro vita quando ancora essi potevano giocare”.

Sarebbe del tutto ingiustificato cadere in determinismi, in spiegazioni del tipo causa-effetto. Tuttavia – per recuperare il collegamento con la questione “gioco d’azzardo patologico” – va sottolineata l’indubbia influenza che un’infanzia senza gioco esercita sulla salute integrale della persona. Più avanti nell’età si rischia di esprimersi con giochi sbagliati, pericolosi, estremi, patologici.

Sta di fatto che un bimbo senza gioco diventa facilmente un adulto infelice, in alcuni casi un adulto che stravolge il senso del gioco e che, non avendo prima giocato in modo autentico, lo fa in poi modo anomalo, patologico.

La riflessione porta perciò alla necessità di una prevenzione che, ribadisco, parta da molto lontano: invertire la tendenza e recuperare il senso dell’autentica educazione/protezione dell’infanzia ridando forza alla strategia pedagogica del gioco spontaneo, liberando i bambini dall’assurda e pesante onnipotenza dei giochi artificiali e costosi, imposti dal mercato. Anche così, partendo da lontano, si può combattere il gioco d’azzardo patologico. Il “gioco autentico” può essere autentico antidoto al “gioco patologico”.

Giuseppe Milan 

(Direttore del CIPPI – Centro interdipartimentale di Pedagogia e Psicologia dell’Infanzia – Univ. di Padova)

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