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Forum a Caracas: il potere degli idrocarburi
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Tra le centinaia di seminari del V Forum Sociale policentrico che si è tenuto a fine gennaio a Caracas, la società civile latinoamericana ha affrontato anche il dibattito "dalla civilizzazione petrolifera alle civilizzazioni post-petrolifere sostenibili e le loro implicazioni con il debito ecologico". Ci troviamo in Venezuela, una Repubblica fondata sul petrolio. Fino a che il prezzo del barile si manterrà alle stelle, il Presidente Hugo Chavez ha la certezza che la rivoluzione bolivariana in America Latina continuerà ad occupare il centro della scena. Il Venezuela ispirato dal petropulismo può permettersi di lanciare anatemi contro il capitalismo e di fare la voce grossa con gli Stati Uniti, il paese che compra il 70 % del suo greggio. Ma nonostante l'irritazione della Casa Bianca, il Venezuela dei petrodollari continua ad attrarre i capitali americani e ora anche quelli cinesi.
E' tra i primi dieci paesi al mondo dove è più conveniente combinare affari. Nei primi nove mesi del 2005 gli investimenti USA sono aumentati del 49%. In vertiginoso aumento sono pure quelli di Pechino: Chavez è stato il primo leader sudamericano ad avvistare le smisurate possibilità di crescita dell'economia cinese. Dopo il lungo sciopero del dicembre 2002, con cui le opposizioni cercarono di metterlo in ginocchio, Chavez ha licenziato metà dei dipendenti della PDVSA (l'ente petrolifero di Stato, quinto produttore mondiale) e ha messo al vertice il Ministro dell'Energia. Coi proventi, in attesa di rilanciare un'industria e un'agricultura palesemente in ginocchio, importa quasi tutto dal Brasile e dall'Argentina. E i generi alimentari li fa rivendere a prezzi scontatissimi (fino al 60%) nella catena di supermercati aperti nelle aree più povere. Ma è soprattutto l'accordo con l'amico Fidel Castro che gli consente di lenire i disagi di quel 47% della popolazione che vive ancora sotto la soglia della povertà. Il Venezuela invia a Cuba 53 mila barili di petrolio al giorno (un terzo del fabbisogno energetico dell'Avana), in cambio di ventimila medici, due mila insegnanti, seimila cinquecento istruttori sportivi. Un piccolo esercito di professionisti che si sono insediati nei barrios (quartieri) più disperati per assicurare l'accesso gratuito delle masse alla salute e all'educazione. L'architrave del consenso su cui si regge la rivoluzione bolivariana.
O con lo Stato, o fuori dallo Stato. In Venezuela è così: in base alla legge sugli idrocarburi, le multinazionali del petrolio potranno continuare a operare nel Paese, quinto produttore mondiale, a patto che sottoscrivano accordi di "associazioni mista" con la PDVSA, la holding energetica statale. La legge prevede che che PDVSA controlli il 51% delle azioni delle "associazioni miste". Chi non ci stà, sarà costretto a lasciare il paese. Tutte le maggiori società hanno accettato le condizioni venezuelane: tra queste BP, Shell, Total e l'italiana ENI. L'unica che a dicembre non aveva firmato il contratto governativo era la Exxon. Secondo la normativa, rivolta alle imprese che producono almeno 500 mila barili di petrolio al giorno, le multinazionali effettueranno anche esborsi per imposte e royalties, non previsti nei precedenti contratti. Per il Ministro dell'Energia Rafael Ramirez, questo permetterà alla PDVSA di risparmiare almeno tre miliardi di dollari l'anno che, nelle intenzioni del presidente Chavez, finanzieranno progetti di sviluppo sociale.
Chavez ha fatto della questione energetica uno degli assi fondamentali del suo progetto politico per il continente e ha trovato un importante alleato in Evo Morales, sindacalista indigeno e cocalero che il 22 gennaio si è insediato come nuovo Presidente della Bolivia. Morales ha in agenda la nazionalizzazione dei giacimenti di idrocarburi, soprattutto di quelli di gas naturale o almeno una rinegoziazione dei contratti di concessione che al momento sono favorevoli alle multinazionali. La Bolivia ha in America Latina le maggiori riserve di gas naturali dopo quelle venezuelane. L'energia però, è una questione molto insidiosa perché le potenze economiche regionali come Argentina, Brasile e Cile (che ha appena eletta la socialista Micelle Bachelet, figlia di un generale ucciso sotto tortura durante il golpe di Pinochet contro Salvador Allende) che dipendono dalle importazioni di petrolio.
In Bolivia il 20% del mercato del gas naturale, dai giacimenti fino al trasporto, è nelle mani dell'azienda petrolifera statale Brasiliana PETROBRAS che ha quote rilevanti anche dei mercati di Uruguay, Paraguay, Argentina, tanto da avviarsi ad essere la prima azienda energetica del continente, considerando anche il nuovo sfruttamento petrolifero nell'Amazzonia dell'Ecuador (dove stanno protestando varie comunità indigene tra cui gli Huaorani, grazie alla mobilitazione delle organizzazioni ecologiste come Oilwatch, Accion Ecologica e Rete Brasiliana di Giustizia Ambientale). In un recente rapporto del Forum Boliviano per l'ambiente e lo sviluppo, si legge che il "comportamento della Petrobras in Bolivia non è differente da quello delle altre multinazionali del settore". Come reagirà il governo brasiliano e il Presidente Lula alla nazionalizzazione dei giacimenti di gas, che Morales non può non fare se non vuole rompere con i movimenti sociali che lo hanno sostenuto in campagna elettorale?
di Cristiano Morsolin, educatore-giornalista ed operatore di reti internazionali. Co-fondatore dell'Osservatorio sulla Regione Andina SELVAS, lavora in America Latina dal 2001.