Flaco, fondatore dei Punkreas: dal punk ai temi di pace e guerra, fino alla musica come impegno sociale

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Video: Youtube.com

"Siamo in una crisi che arriva in un momento in cui si è persa l’abitudine a pensare collettivamente e a cercare risposte collettive. Per lo più non si fanno neanche le domande. Figurarsi le risposte".  Per Flacopunx – chitarrista, cantautore e fondatore dei Punkreas – la musica non è (solo) svago ma è anche un potente strumento per sensibilizzare le coscienze. Con lui la nostra Laura Tussi ha parlato di pacifismo, di geopolitica, di storia e di arte.

Flaco storico fondatore dei Punkreas, un gruppo musicale Punk con un forte slancio di pensiero e passione rispetto agli ideali antifascisti.

Da secoli la musica smuove le coscienze, entra nell'anima e spinge al pensiero e all'azione. La pensa così anche Flaco, storico fondatore ed ex chitarrista dei Punkreas. Da diversi anni ha intrapreso una carriera solista come Flacopunx. Ciò che non è mai venuto meno è il suo impegno sociale e politico, in particolare rispetto a temi come pacifismo e nonviolenzaFlaco continua la sua attività musicale da indipendente, senza dimenticare l'esperienza collegata al passato. Fabrizio Castelli, meglio conosciuto come Flaco,  é stato fondatore, chitarrista, compositore e portavoce dei Punkreas, noto gruppo dagli alti ideali antifascisti, dalle origini al 2014. Dopo la separazione con la band per motivi che non sono mai stati chiariti, é uscito nel 2016 con "Coleotteri", un album solista sotto marchio Flacopunx. Da allora un lungo silenzio interrotto recentissimamente  da "Luce", un singolo in collaborazione con I Blak Vomit ispirato al tema della pace un Europa.  Gli abbiamo fatto qualche domanda.

Puoi raccontare la genesi della tua ultima composizione musicale, una canzone dal titolo emblematico 'Luce', che vuole illuminare questi tempi spaventosi e oscuri?

Questa canzone è figlia del momento di crisi che stiamo attraversando, una crisi in cui il pubblico e il privato si ingarbugliano, si influenzano e si confondono, complicandosi sempre di più. Una crisi che arriva in un momento in cui si è persa l’abitudine a pensare collettivamente e a cercare risposte collettive. Per lo più non si fanno neanche le domande. Figurarsi le risposte. E così, anche se l’origine dei problemi è sociale - la guerra, la pandemia, la crisi economica e culturale - la ricerca di soluzioni finisce per essere sempre e inutilmente personale e privata.

Forse si è perso il piacere del confronto e dell’incontro. Sicuramente si è persa la fiducia nella possibilità di poter incidere positivamente sulla realtà: “Tanto non cambia niente”?

Non saprei dire se questa percezione sia corretta oltre che diffusa. L’unica cosa che si può dire con certezza è che, se uno non crede di poter fare una cosa, non la farà. E così ce ne stiamo per lo più a far niente, aspettando che le cose vadano come devono andare.

Sei impressionato da questa guerra al centro del vecchio continente, con l'Europa, che vede scontrarsi Ucraina, Russia, Stati Uniti e Nato?

Alla notizia dell’attacco russo su Kiev sono rimasto traumatizzato. Non mi pareva possibile che in Europa potesse succedere qualcosa che collegavo istintivamente all’invasione hitleriana dei Sudeti. La cosa paradossale è che la Russia presentava l’aggressione come un’operazione di denazificazione. Ho pensato che non fosse giusto tollerarlo. E in effetti non è stato tollerato. Ma immediatamente dopo mi è parso che lo scenario fosse molto torbido. 

Ognuno interpreta quel che accade (o meglio quel che apprendeva su quanto accadeva) filtrandolo attraverso le sue convinzioni o pregiudizi, in una impressionante confusione di simboli, di appartenenze e di identità ormai ridotti a fantasmi. Vero?

Evidentemente ci muoviamo ancora seguendo gli schemi narrativi del ‘900, mentre il contesto è cambiato e questo da luogo a numerosi cortocircuiti che mi hanno reso impossibile schierarmi. Mentre Putin vendeva la sua operazione speciale come opera di denazificazione, le destre estreme di tutta Europa (finanziate dallo stesso Putin) si schieravano più o meno apertamente con la Russia. Le sinistre, strette tra la nostalgia dell’U.R.S.S. comunista, la critica all’espansionismo Nato e la necessità di condannare l’aggressione sul piano del diritto internazionale, finivano per accodarsi all’impostazione anglo-americana: avanti tutta fino alla – impossibile – vittoria. 

Questa guerra sembra sempre più un grande spartiacque internazionale e ideologico e etnico?

Contemporaneamente però in alcuni che venivano da sinistra prevaleva il fascino per l’antiamericanismo e la condanna per la politica occidentale di accerchiamento della Russia. Mentre a loro volta i nazisti o filo-nazisti ucraini (in Ucraina c’è una lunga tradizione di simpatie naziste in funzione anti-sovietica) sono ovviamente tutt’altro che filo-russi. E’ evidente che su queste basi non se ne esce.

Intanto in Italia, inevitabilmente, la retorica di guerra si impadronisce dell’informazione e crea una cappa di sospetto su chiunque osasse dei distinguo. Giusto?

I più hanno accettato la narrazione secondo cui era doveroso mettersi l’elmetto (almeno fino a che erano altri a doverselo mettere) e difendere i nostri valori minacciati. I meno criticavano questa versione e venivano quindi immediatamente additati come filo-russi e quindi traditori, anche quando non avevano nulla da spartire con Putin e la sua politica. La legge della guerra implica la necessità di essere arruolati, a forza o per convinzione, da una parte o dall’altra. Ed è esattamente questa logica che i rappresentanti delle istituzioni europee hanno avallato, diffuso e alimentato fin da subito. 

Passato il primo momento di sgomento e di indignazione per l’invasione, ti sembra incredibile che nessun rappresentante delle istituzioni europee osasse parlare di trattativa e negoziazione?

Eppure le nazioni d’Europa sono le più esposte in questo scenario. A prescindere dal rischio sempre presente dell’escalation nucleare, la guerra comporta danni economici e sociali che dissanguano ulteriormente quel poco di welfare rimasto, mentre arricchiscono pochi produttori di armi. Mi chiedevo: possibile che a nessuno venga in mente che proporre delle soluzioni di pace possa essere più sensato che soffiare sul fuoco di una guerra dagli obiettivi e dagli esiti sempre più incerti? Con me, e prima di me se lo chiedevano illustri rappresentanti della cultura europea. Cito ad esempio Edgar Morin: ”E’ sorprendente che in una congiuntura così pericolosa, il cui pericolo aumenta continuamente, si levino così poche voci in favore della pace nelle nazioni più esposte, in primo luogo quelle europee” (“Di guerra in guerra”, Cortina, 2023)

Al posto di iniziative per il dialogo e la risoluzione pacifica del conflitto, sul piano istituzionale abbiamo avuto Macron che si improvvisa Napoleone - facendo la stessa fine senza doversi prendere il disturbo di affrontare a cavallo l’inverno russo -, e numerosi altri politici che hanno soffiato sul fuoco. Che ne pensi?

A livello di movimenti di opinione, a parte l’appiattimento e il sonnambulismo generale con qualche venatura bellicista (soprattutto sui media), ci sono state iniziative pacifiste di ispirazione cattolica e sociale, ben rappresentate dal Papa. Ora, vorrei spendere giusto due parole su queste generiche aspirazioni alla pace: sono inutili e prive di consistenza. Troppe volte abbiamo visto questo teatrino, dalle canzoncine tipo “Il mio nome è mai più”, a Ligabue che suona al cospetto di Sua Santità. Una volta officiata una posizione formale tanto dovuta quanto ininfluente, si torna a casa a guardare un serie di Netflix con l’ impressione di aver fatto la propria parte.

Questo pacifismo generico ti è inaccettabile per più di un motivo?

Anzitutto fingere che l’aggressività e la guerra non facciano parte del corredo filogenetico dell’uomo e che quindi possano essere eliminate con un semplice atto di buona volontà e un appello ai buoni sentimenti, è una truffa. Negare il problema è il modo migliore per non affrontarlo. 

In secondo luogo perché il pacifismo europeo è storicamente un effetto della guerra fredda: mentre gli equilibri mondiali erano garantiti dalle armi e dagli scudi stellari americani e sovietici, agli europei era consentito scendere in piazza e manifestare dissenso. Ma senza nessuna forza reale. Nel 2003 a Roma e Madrid milioni di persone hanno manifestato contro la guerra in Iraq. C’ero anch’io. Risultati? Zero. Che vuoi che gliene importi agli americani di qualche milione di europei e delle loro bandiere colorate?

Hai scritto anche una canzone, anni fa. Si intitola 1861 e dice “Il pacifismo protetto/dall’ombra lunga di Yalta”?

L’hanno capita solo i lettori di Limes, ma non c’erano lettori di Limes tra i tuoi fan perciò il disco di Flacopunx non è andato molto bene. 

Per tutti questi motivi non credo ci possa essere nessuna iniziativa di pace incisiva, se non si affronta la questione delle condizioni storiche e geopolitiche. In altre parole l’Europa può avviare un processo di pace e garantirne le condizioni se si costituisce come forza politica consistente e federata, riprendendo il programma del manifesto di Ventotene. Altrimenti non resta che leggere le istruzioni ed eseguire.

Chi oggi vuole fare il pacifista non può limitarsi agli appelli e neanche alle manifestazioni?

Deve anche e soprattutto studiare le condizioni storiche contingenti, cercare alleanze e trovare una strada praticabile nel contesto reale. Più faticoso che sventolare una bandiera arcobaleno o gridare che è tutta colpa del patriarcato. E di molto lontano da quel qualunquismo per il quale “sono tutti uguali”, che è diventato un mantra di appoggio all’ascesa delle destre in tutta Europa.

Queste destre sovraniste oggi si gonfiano il petto, ma domani saranno di necessità le nuove ancelle?

In Italia sta già succedendo. Sempre che i nostri protettori ad un certo punto non decidano che la colonia europea è troppo dispendiosa e ci abbandonino come un Iraq qualunque.

Anche su Italia che cambia 

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Bibliografia essenziale:

  • Laura Tussi e Fabrizio Cracolici, Resistenza e nonviolenza creativa, Mimesis Edizioni.
  • Laura Tussi e Fabrizio Cracolici, Memoria e futuro, Mimesis Edizioni. Con scritti e partecipazione di Vittorio Agnoletto, Moni Ovadia, Alex Zanotelli, Giorgio Cremaschi, Maurizio Acerbo, Paolo Ferrero e altr*

Laura Tussi

Docente, giornalista e scrittrice, si occupa di pedagogia nonviolenta e interculturale. Ha conseguito cinque lauree specialistiche in formazione degli adulti e consulenza pedagogica nell'ambito delle scienze della formazione e dell'educazione. Coordinamento Italia Campagna Internazionale ICAN - Premio Nobel per la Pace 2017 per il disarmo nucleare universale, collabora con diverse riviste telematiche tra cui PressenzaPeacelinkIldialogoUnimondo, AgoraVox ed ha ricevuto il premio per l'impegno civile nel 70esimo Anniversario della Liberazione M.E.I. - Meeting Etichette Indipendenti, Associazione Arci Ponti di Memoria e Comune di Milano. Autrice dei libri: Sacro (EMI 2009), Memorie e Olocausto (Aracne 2009), Il dovere di ricordare (Aracne 2009), Il pensiero delle differenze(Aracne 2011), Educazione e pace (Mimesis 2012), Un racconto di vita partigiana - con Fabrizio Cracolici, presidente ANPI Nova Milanese (Mimesis 2012), Dare senso al tempo-Il Decalogo oggi. Un cammino di libertà (Paoline 2012), Il dialogo per la pace. Pedagogia della Resistenza contro ogni razzismo (Mimesis 2014), Giovanni Pesce. Per non dimenticare (Mimesis 2015) con i contributi di Vittorio Agnoletto, Daniele Biacchessi, Moni Ovadia, Tiziana Pesce, Ketty Carraffa, Antifascismo e Nonviolenza (Mimesis 2017), con Alfonso Navarra, Adelmo Cervi, Alessandro Marescotti.  Collabora con diverse riviste di settore, tra cui: "Scuola e didattica" - Editrice La Scuola, "Mosaico di Pace", "GAIA" - Ecoistituto del Veneto Alex Langer, "Rivista Anarchica". Promotrice del progetto per non dimenticare delle Città di Nova Milanese e Bolzano www.lageredeportazione.org e del progetto Arci Ponti di memoria www.pontidimemoria.it. Qui il suo canale video.

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