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Educa: ripartire dall’ascolto e dai diritti dei bambini
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Educa dedica la sua 2° edizione alla Convenzione sui diritti dell’infanzia: perché l’educazione, più che emergenza, è ricerca dei grandi orizzonti ideali che diano senso alla vita personale e a quella collettiva. Ed è scommessa sul futuro.
Ricorre quest’anno il ventesimo anniversario della Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, approvata solennemente il 20 novembre 1989 dall’assemblea delle Nazioni Unite ed entrata in vigore il 2 settembre 1990. Probabilmente nella memoria collettiva sono altri gli avvenimenti importanti di quello straordinario 1989: la protesta soffocata nel sangue degli studenti cinesi in piazza Tienanmen, in giugno; l’incredibile protesta nonviolenta a Lipsia, in ottobre; la caduta del muro di Berlino il 9 novembre. Ma fra quegli eventi rivoluzionari va collocata anche l’approvazione di questa Convenzione, che solo pochi anni dopo era già il documento più ratificato di tutto il pianeta (ad oggi non è ratificata da due soli Paesi delle Nazioni Unite: la Somalia e gli Stati Uniti). Non è dunque casuale che quest’anno il filo conduttore di Educa, la manifestazione sull’educazione che si svolge a Rovereto a fine settembre, sia costituito proprio dalla Convenzione.
Sono tre le ragioni che rendono questo documento così importante e così universalmente riconosciuto: la sua peculiarità sul piano della struttura, la sua portata sul piano giuridico e la sua importanza su quello etico ed educativo.
Sul piano della struttura, la Convenzione è un documento di nuova generazione. Rispetto alle precedenti Dichiarazioni, da quella del 1948 sui diritti umani a quella del 1959 sui diritti del fanciullo, essa si presenta come un documento molto più lungo, ricco e articolato e, soprattutto, come un documento aperto. Esso infatti può essere integrato con i cosiddetti Protocolli opzionali, nei quali si approfondiscono temi particolari legati ai diritti dei minori. Attualmente i protocolli opzionali, approvati dall’Assemblea dell’ONU nel 2000, sono due: uno relativo al coinvolgimento dei bambini nei conflitti armati, e uno sul problema dello sfruttamento sessuale dei bambini. Da questo punto di vista la convenzione è molto più di una dichiarazione di principi: leggendola, al contrario, si ha l’impressione di un documento che è nato dall’incredibile sforzo di articolare una filosofia complessiva sul posto che nel mondo spetta ai bambini e ai ragazzi. Il fatto che nel nostro Paese essa sia un documento quasi sconosciuto, poco diffuso, e poco studiato anche negli ambienti educativi (si riesce a laurearsi negli indirizzi che hanno direttamente a che fare con i minori senza averne mai sentito parlare!) è a dir poco vergognoso…
Sul piano giuridico, la ratifica (l’Italia l’ha ratificata nel 1991) impegna ad adeguare le proprie leggi ai principi della Convenzione. Tale adeguamento non è sempre facile e non è immediato, poiché richiede spesso di rivedere convinzioni consolidate prima ancora che le norme. Si pensi, solo per fare un esempio, a cosa significa riconoscere che non è lecita nessuna forma di discriminazione fra i bambini, né di genere, né tantomeno per religione, appartenenza etnica, nazionalità: cosa tutt’altro che scontata non solo nei Paesi governati da regimi non democratici, ma anche nel democraticissimo Occidente. E tuttavia la ratifica impegna chi la sottoscrive a rivedere il proprio sistema giuridico e a sottoporsi all’analisi di un comitato di controllo internazionale che ha il compito di verificare periodicamente l’effettiva applicazione dei principi della Convenzione. Tutto questo è tanto più importante se si tiene conto del fatto che la Convenzione è, fa notare Unicef, “il primo strumento di tutela internazionale a sancire nel proprio testo le diverse tipologie di diritti umani: civili, culturali, economici, politici e sociali, nonché quelli concernenti il diritto internazionale umanitario”.
Esiste però un aspetto più trascurato della Convenzione, che rimane altrettanto innovativo: la sua portata sul piano educativo. È infatti riduttiva una lettura della Convenzione in chiave unicamente giuridica, trattandosi di un documento che è frutto prima di tutto di una svolta nella concezione stessa dei minori, considerati non più come oggetti di tutela (come avveniva nella Dichiarazione dei diritti del fanciullo approvata all’unanimità e senza astensioni il 20 novembre 1959), quanto come soggetti di diritto. Su questa premessa si innestano i quattro principi fondamentali che rappresentano i pilastri sui quali poggia tutta la struttura della Convenzione, e che è utile qui ricordare.
Primo, il principio di non discriminazione: sancito dall'art. 2, impegna gli Stati parti ad assicurare i diritti ivi sanciti a tutti i minori, senza distinzione di razza, colore, sesso, lingua, religione, opinione del bambino e dei genitori.
Secondo, il principio di superiore interesse del bambino: sancito dall'art. 3, il principio prevede che in ogni decisione, azione legislativa, provvedimento giuridico, iniziativa pubblica o privata di assistenza sociale, l'interesse superiore del bambino deve essere una considerazione preminente.
Terzo, il diritto alla vita, alla sopravvivenza e allo sviluppo: il principio, sancito dall'art. 6, prevede il riconoscimento da parte degli Stati membri del diritto alla vita del bambino e l'impegno ad assicurarne, con tutte le misure possibili, la sopravvivenza e lo sviluppo non solo fisico, ma anche spirituale, morale, psicologico e sociale.
Quarto, l’ascolto delle opinioni del bambino: il principio, sancito dall'art. 12, prevede il diritto dei bambini a essere ascoltati in tutti i procedimenti che li riguardano, soprattutto in ambito legale. L'attuazione del principio comporta il dovere, per gli adulti, di ascoltare il bambino – pur tenendo conto del suo livello di maturità e della capacità di comprensione – e di considerare il valore delle sue opinioni.
Da questi principi mi sembra possano derivare alcune conseguenze per nulla trascurabili a livello educativo.
Già la prospettiva di fondo impone di rivedere molte delle convinzioni che sorreggono i nostri sistemi educativi, assegnando al bambino e al ragazzo un ruolo da protagonista nella propria crescita. Certo, probabilmente a parole siamo tutti d’accordo sul fatto che i minori devono essere soggetto di diritti prima che oggetto di tutela. Ma in pratica l’applicazione di questo principio sul piano educativo non è così semplice, perché richiede in molti casi un ridimensionamento dell’esercizio di potere che ogni sistema educativo porta con sé. E richiede anche un continuo interrogarsi sulle finalità dell’educare in relazione alla libertà, al rispetto dello sviluppo della coscienza, al rispetto dell’autonomia, al valore della responsabilità, rinunciando a quelle forme di controllo – a volte molto sottili e presentate come il bene dei bambini – che sono tanto presenti nei nostri sistemi educativi.
Ma non c’è solo questo. I principi della Convenzione stabiliscono anche che l’educazione dei bambini e dei ragazzi deve avvenire in un contesto di rispetto dell’altro e di accoglienza della diversità. Il principio di non discriminazione ha due risvolti: esso da una parte protegge il bambino dalla discriminazione di cui può essere oggetto, qualsiasi sia il contesto nel quale vive (anche nelle consolidate democrazie occidentali capita che l’essere figli di certi genitori, anziché di altri, sia motivo di ingiustificabili discriminazioni…); dall’altra è una priorità educativa fondamentale. In questo la convenzione offre continui spunti, sottolineando la necessità di far crescere il bambino in uno spirito di comprensione, di conoscenza e di collaborazione con l’altro.
Da ultimo, un’osservazione particolare merita la prospettiva di fiducia che sorregge la Convenzione. Leggendone gli articoli è difficile non rimanere colpiti dall’impressione che coloro che ne hanno steso il testo avessero inteso porre l’accento sull’efficacia sociale dell’educazione: educare al rispetto dell’altro e alla consapevolezza del proprio e dell’altrui valore crea sicuramente uomini migliori, più coraggiosi e positivi, più responsabili e sensibili, in una parola più “umani”, e quindi pone realmente le basi per un mondo meno aggressivo e conflittuale. E questo perché l’idea che anima la Convenzione è quella che non ci può essere schizofrenia fra i valori predicati ai piccoli e quelli vissuti dai grandi. Contro l’ipocrisia educativa, che ritiene che i valori del rispetto e dell’accoglienza facciano parte di un mondo “fantastico” che poi si infrangerà nel mondo “reale” vissuto dagli adulti, la Convenzione rilancia il valore universale di quei principi per l’edificazione di una convivenza fondata, direbbe mons. Tonino Bello, “sulla convivialità delle differenze”.
Per questo è importante la scelta di Educa di dedicare l’edizione di quest’anno alla Convenzione: perché l’educazione, più che emergenza, è ricerca dei grandi orizzonti ideali che diano senso alla vita personale e a quella collettiva ed è scommessa sul futuro. Di tutti coloro che, a prescindere da ogni appartenenza, appartengono prima di tutto al genere umano.
Alberto Conci
Fonte: Cooperazione tra Consumatori