E tu, che impronta schiavista hai?

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Vivo in un miniappartamento nel nord Italia, ho una macchina e una bici ma se posso vado a piedi, sono vegetariana, compro quasi sempre prodotti biologici, locali, provenienti da filiera equa e solidale. Non mi definirei affatto una consumatrice acritica, spreco il meno possibile, riciclo, riutilizzo, autoproduco cose da mangiare, regali, cosmetici e prodotti per l’igiene personale. Non frequento persone che offrono sesso a pagamento. Pratico sport e anche l’abbigliamento tecnico faccio in modo che provenga da marchi con un’etica ben precisa. Mi viene in mente la Canzone del maggio di De André: “anche se voi vi credete assolti, siete lo stesso coinvolti”. Il rischio è quello, no? Credersi “a posto” grazie a una serie di scelte oculate e ragionate che ci aiutano a sentirci meglio nelle nostre vite. L’avete mai avuta questa sensazione qualche volta, magari in situazioni in cui ci si è sentiti un po’ superiori agli altri per aver messo in atto comportamenti più “giusti”?

Eppure ho 47 schiavi al mio servizio. Non conosco i loro volti, non so cosa stiano esattamente producendo, non so dove lo stiano facendo. Sono una padrona inconsapevole. Ma che stiano lavorando per me non esito a crederlo, e non solo perché ho semplicemente risposto il più onestamente possibile a un semplice test (che vi consiglio vivamente di provare, intuitivo nella grafica, rapido, significativo). Magari sono 40 o 50, il test è preciso ma magari non precisissimo, anche se la metodologia del calcolo è esplicita e chiara. In ogni caso il numero si aggira verosimilmente intorno a questa cifra, perché in casa ho uno stereo, un telefonino, dei mobili; perché ho pentole e oggetti - troppi in ogni caso, anche quando mi sembrano necessari - di cui non so nulla su dove, come, quando, da chi e soprattutto in quali condizioni siano stati prodotti. E il risultato del mio test, purtroppo, mi dice proprio questo: “Ci piacerebbe poterti consigliare quali marche acquistare per ridurre la tua impronta schiavista, ma la verità è che non possiamo ancora farlo. La questione non rappresenta una priorità per gli affari”.

Questo per dire solo una cosa. Non saremo mai abbastanza attenti e all’erta nei nostri comportamenti e nei nostri acquisti, anche impegnandoci su più fronti per essere consumatori consapevoli e accorti. Non lo saremo mai fino a che non saranno le stesse aziende a mettere in atto dei mutamenti, a tracciare con trasparenza la propria filiera di produzione, a proporci prodotti che non siano stati realizzati da schiavi - o da lavoratori in condizioni di simil-schiavitù. Questo non significa che la sfiducia debba avere il sopravvento, che il ragionamento debba scivolare in uno sconsolato “allora, dato che così non basta, tanto vale non fare niente”. No. Significa che occorre premere in maniera ancor più incisiva, perché l’offerta aumenta all’aumentare della domanda, e il potere di aumentare la domanda in un senso o nell’altro lo abbiamo noi come consumatori. I nostri desideri non passano certo inosservati alle aziende, anzi. A volte vengono anticipati, persino creati ad hoc, ed è quindi fondamentale orientare i nostri acquisti in modo tale che possano essere letti in maniera univoca e inequivocabile come specchio delle nostre scelte e delle nostre richieste. “Io compro solo ciò che non produce sofferenza ad altri, che non includa lavoro coatto nel processo produttivo, che non utilizzi minori per la realizzazione di ciò che acquisto”, questo il messaggio che dovremmo sottintendere all’atto del pagamento dell’oggetto del desiderio. Diversamente, quell’oggetto non sarebbe più così desiderabile.

Slavery footprint è l’occasione per misurarsi con se stessi e per invitare altri a farlo, è l’opportunità che ci viene data per riflettere e fare luce su quegli aspetti dell’economia globalizzata che non galleggiano in superficie assieme a una quantità incredibile di prodotti di infima qualità dall’obsolescenza programmata e dai trascorsi produttivi oscuri. L’idea nasce dal network Made In A Free World con l’intento di allertare le coscienze, evidenziare i problemi, offrire aiuto. Si propone come strumento per dare ad ognun@ di noi l’opportunità di autoverificarsi, testando le conseguenze spesso ignote o trascurate del proprio stile di vita, ma realizza anche progetti a sostegno di persone in stato di schiavitù (per esempio in Ghana e in India) e offre alle aziende software come il FRDM (Forced Labor Risk Determination & Mitigation) per migliorare ad esempio la logistica e avere quindi maggiore controllo sulla propria catena produttiva e sulle eventuali irregolarità. Perché non si tratta sempre e solo di malafede o di ineludibili esigenze di ottenere il massimo al minor costo; si tratta anche di informazione, di consapevolezza, di diritti umani, di attenzione, che devono tener conto di un fatto inconfutabile: la schiavitù non è mai finita, ha assunto oggi solamente forme diverse, la forma che è anche quella di un numero, quasi 36 milioni di persone nel mondo. Sono troppe e non sono numeri. E alcune ce le portiamo dentro casa.

 

Anna Molinari

Giornalista freelance e formatrice, laureata in Scienze filosofiche, collabora con diverse realtà sui temi della comunicazione ambientale. Gestisce il progetto indipendente www.ecoselvatica.it per la divulgazione filosofica in natura attraverso laboratori e approfondimenti. È istruttrice CSEN di Forest Bathing. Ha pubblicato i libri Ventodentro (2020) e Come perla in conchiglia (2024). Per la testata si occupa principalmente di tematiche legate a fauna selvatica, aree protette e tutela del territorio e delle comunità locali.

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