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E se De Beers avesse ragione?
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"La strada per far uscire l'Africa dalla povertà non è quella di riempirla di aiuti, ma eliminare le restrizioni al commercio". La dichiarazione non arriva da un esponente no global dai blue jeans stracciati o da un rampante funzionario africano in abiti occidentali, ma di Nicky Oppenheimer. Il nome dice poco, ma il signor Oppenheimer è il presidente della De Beers, la più conosciuta azienda di diamanti al mondo. Il quale, come se non bastasse, ha aggiunto: "E' un espediente politico per Europa e America quello di riempire l'Africa di aiuti, piuttosto che tagliare i sussidi che permettono ai loro agricoltori di scaricare i loro prodotti sull'Africa impoverendo i produttori africani". Parlava ad un forum del Consiglio per le Relazioni Estere a Washington e ha ripetuto il discorso in un convegno simile a Londra. Ed ha concluso "Per tutti i colloqui di partnership tra Africa e nazioni donatrici, gli aiuti hanno rappresentato una forma di dipendenza dai Paesi donatori, al punto che in alcuni dei Paesi più poveri, dove costituiscono oltre il 50% del budget nazionale, è sicuramente diventata una forma di neocolonialismo".
Considerazioni, quelle del signor Oppenheimer alle quali la stampa nazionale non ha dato alcun risalto a differenza di quelle di un altro autorevole personaggio, John Morris, direttore dell'International Policy Network (IPN) di Londra. In uno studio presentato lo stesso giorno e nello stesso forum di Londra, al quale il "Corriere della sera" ha dato ampio risalto giovedi scorso, l'istituto di ricerche britannico dimostra che il volume di aiuti ricevuti a partire dagli anni '70 dai Paesi in via di sviluppo è risultato inversamente proporzionale alla crescita di questi ultimi. Una tesi che è servita all'istituto britannico - e alla stampa internazionale - per affermare che le rockstar (Bono, Geldof, Jovanotti & c.) che da anni chiedono la cancellazione del debito e maggiori aiuti per l'Africa, saranno pur in buona fede ma "vedono il mondo attraverso occhiali rosa". Il nocciolo della tesi dello studio britannico è che gli aiuti non solo "spostano l'attenzione dal vero problema quello cioè della creazioni di istituzioni democratiche che funzionino", ma soprattutto che "danno risorse a regimi dispotici che in questo modo continuano a opprimere minando la democrazia e perpetuando la povertà". I casi citati sono diversi, da quello del dittatore Idi Amin in Uganda ai più recenti Laurent-Désiré Kabila in Repubblica democratica del Congo e di Robert Mugabe in Zimbabwe, ma la lista potrebbe estendersi indietro nel tempo fino a Mobutu (presidente padrone dello Zaire dal 1965 al 1997) e Bokassa (imperatore della Repubblica Centro-africana dal 1966 al 1979). E non si tratterebbe di noccioline visto che nei decenni successivi alla fine del potere coloniale l'Africa avrebbe ricevuto aiuti che variano - a seconda delle stime - da 400 ad un migliaio di miliardi di dollari. Soldi che non sono mai arrivati alle popolazioni, persi nei diversi rivoli che vanno dai capi di Stato ai funzionari, dai diplomatici ai loro parenti, amici e amici degli amici... e nelle diverse agenzie umanitarie internazionali.
Uno studio importante, dunque, che dimentica però due piccoli particolari: chi ha dato quegli aiuti e cosa ha chiesto in cambio. E' ormai documentato che quegli "aiuti" a partire dagli anni '70 sono spesso stati dati a dittatori e dittatorelli locali dalle potenze occidentali sia per poterli tenere nella propria sfera di influenza - e non è un caso che il suddetto studio dell'IPN noti che a partire dagli anni '90 gli aiuti all'Africa siano calati notevolmente -, sia per potersi accaparrare in cambio le risorse che quei paesi offrono a basso costo. Che è proprio ciò verso cui il signor Oppenheimer della De Beers punta l'indice. "La campagna per far uscire l'Africa dalla povertà resta macchiata di ipocrisia, se restano in vigore sussidi e tariffe". Che, per una volta, la De Beers abbia ragione?
di Giorgio Beretta