Dossier / Muri e politica di recinzione

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Infografica realizzata nel 2018 per la nona edizione dell’Atlante delle Guerre e dei Conflitti del Mondo 

Il più noto e studiato è ovviamente quello di Berlino. Sono i “Muri nel mondo”. Quelli che chi studia la teicopolitica, che analizza queste costruzioni come strumento per rinchiudere il territorio politico in perimetri limitati nel contesto del miglioramento da parte degli Stati dei sistemi di protezione dei propri confini, definiscono “politica di recinzione”. Barriere divisorie costruite per motivi di sicurezza e sorveglianza, per respingere i migranti, per impedire presunte infiltrazioni terroristiche, per arginare il traffico di droga, cercare di chiudere contenziosi territoriali, separare gli appartenenti a fedi religiose diverse, marcare la linea del cessate il fuoco di una guerra. Anche se poi “finiscono per ridurre i diritti degli esseri umani, per controllarli, canalizzarli, ostacolarli”, come scrisse nel 2019 su questo sito il direttore responsabile di Atlante Guerre, Raffaele Crocco, per il trentennale della caduta del Muro di Berlino, costruito nel 1961 dai sovietici per dividere in due la capitale tedesca.

Diversi gli studi, le ricerche e gli articoli scientifici pubblicati negli anni sull’argomento. Alcuni dei quali diffusi proprio in occasione degli anniversari del crollo nel 1989 della cosiddetta “cortina di ferro”: quella che divideva l’Europa e il mondo intero in due blocchi ideologici contrapposti. Un’immaginaria linea di confine, con dentro una grande città quel muro in calcestruzzo armato lungo 155 chilometri e alto 3,6 metri, che durante la Guerra Fredda separava le zone europee occidentali dell’Alleanza Atlantica (la NATO) da quelle orientali del Patto di Varsavia. Segnando la linea di demarcazione tra il mondo capitalista guidato dagli Stati Uniti e quello comunista dell’allora Unione Sovietica. Un muro simbolo, emblema di una guerra disumana, ancor più per gli abitanti di quei territori che dalla sera alla mattina si erano improvvisamente, per 28 lunghi anni, trovati da una parte o dall’altra della “cortina di ferro”. In una struttura politico-economico-sociale o nell’altra. Sotto un regime o nella parte di mondo che si auto-definisce libero. E con la costante minaccia di un conflitto nucleare tra i due blocchi.

Volendo restare in Europa, caduto quello di Berlino, “negli ultimi due decenni il numero di recinzioni alle frontiere UE/Schengen è passato da 0 a 19”, con 12 Paesi ad averle erette, si legge in un documento dell’Europarlamento. La tabella riassuntiva presente in quel testo riporta: Bulgaria (235 chilometri di recinzione al confine con la Turchia), Estonia (104 Km verso la Russia), Grecia (52.5 Km con la Turchia e 37 Km con la Macedonia del Nord), Spagna (enclave di Ceuta e Melilla, barriere lunghe rispettivamente 7,8 e 13 Km con il Marocco), Francia (65 km a Calais in direzione Regno Unito), Cipro (180 Km tra parte greca e turca), Lettonia (93 km verso la Russia, più altri 36,9 con la Bielorussia, allora riportati in fase di costruzione), Lituania (502 km con la Bielorussia e altri 45 km di separazione dalla Kaliningrad russa), Ungheria (131 km con la Croazia e 158 km con la Serbia), Norvegia (0,2 km con la Russia), Austria (3,3 km con la Slovenia, più 0,25 km con l’Italia), Polonia (186 km con la Bielorussia), Slovenia (198,7 km con la Croazia).   

Almeno 6 persone su 10 vivono dove c’è un muro di frontiera

“L’era in cui si desiderava un mondo senza confini è finita”, sentenzia Elisabeth Vallet, docente di Geografia all’Università del Québec a Montréal (Canada) e direttrice del Centro di Studi Geopolitici della Cattedra Raoul-Dandurand di Studi Strategici e Diplomatici, nel suo libro Borders, Fences and Walls: State of Insecurity? (Taylor & Francis Ltd, 2018). Negli anni Novanta molti ricercatori prevedevano entro la fine del ventesimo secolo un mondo senza confini soggetto al processo di globalizzazione. “Quasi due decenni dopo si può affermare che questa visione è pura fantasia”, riassume in un articolo del 2020 Anna Kotasiyska, ricercatrice della Facoltà di Scienze Sociali dell’Università di Breslavia (Polonia). Perché la “sicurezza percepita, causata dall’immigrazione o dal terrorismo, favoriscono al contrario la costruzione di muri e recinzioni che impediscono la mobilità umana”, scrive la Vallet.

Nel suo libro sull’argomento pubblicato nel 2018, la docente di Geografia all’Università del Québec ha censito 70 recinzioni divisorie presenti nel mondo. Nell’ultimo mezzo secolo, quasi un terzo delle nazioni ha costruito barriere per separarsi da qualcosa o qualcuno. La ricercatrice ricorda che questi muri sembravano un “relitto storico” dell’umanità: dalla Grande Muraglia cinese lunga 8.850 chilometri (tra mura, trincee e difese naturali), voluta a partire dal 215 a.C. dall’imperatore Qin Shi Huang per difendere l’impero dalle popolazioni nomadi (e in particolare dagli Unni), al Vallo Antonino, costruito dall’Impero Romano in Scozia nell’anno 142 per sostenere il Vallo di Adriano realizzato 160 chilometri più a sud per marcare il confine settentrionale della Britannia. Dal Limes romano al Danevirk danese, per la geografa canadese “il ‘muro’ è stato una costante nella protezione di entità definite che rivendicano la sovranità, Est e Ovest”. Poi si era per l’appunto immaginato sempre più un mondo sicuro senza confini, fino a quando “negli ultimi anni, al muro è stato dato nuovo vigore”. La Vallet ritiene nel suo testo che “il ritorno delle recinzioni e dei muri di confine come strumento politico possa essere sintomatico di una nuova era negli studi sui confini e nelle relazioni internazionali”. Anche perché, secondo un rapporto pubblicato nel 2020 dal Transnational Institute, un think tank internazionale senza scopo di lucro di ricerca e advocacy fondato nel 1974 ad Amsterdam (nei Paesi Bassi) impegnato a cercare di costruire un mondo giusto, democratico e sostenibile, almeno 6 persone su 10 vivono in un Paese con un muro di frontiera...

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