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Disumanizzazione legalizzata
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Scusi, che cosa sta succedendo?
Qualora qualcuno si avventurasse tra le terre ungheresi, serbe e croate si renderebbe subito conto, come del resto anche a me è capitato, del fatto che la disinformazione non sia unicamente una lacuna del nostro sistema mediatico nazionale, ma piuttosto un fenomeno che regna capillarmente e in maniera indisturbata in tutti i territori sopracitati. Tutto questo grazie al sistema imposto dai governi eletti in quelle zone, che sembrano esser più interessati a non far vedere ciò che sta succedendo, impedendo qualsiasi contatto dei migranti con la cittadinanza, piuttosto che a pensare ad un programma di accoglienza adeguato. Se allora un cittadino fosse interessato a mettersi al servizio di chi sta arrivando da Siria, Afghanistan, Iran e zone limitrofe, si troverebbe davanti ad un muro impenetrabile: non solo le forze dell'ordine non sanno o non vogliono fornire notizie circa i luoghi dove effettivamente queste persone vengono spostate, ma gli stessi residenti sono del tutto ignari di ciò che gli sta accadendo vicino. Nessuno, assolutamente nessuno, ad oggi è in grado di fornire una visione completa ed esaustiva di ciò che sta accadendo: ognuno lavora soltanto nel proprio piccolo campo di competenza (ad esempio gli autisti che trasportano i migranti da un confine all'altro, sono spesso scortati dalla polizia o dall'esercito, ma di fatto non conoscono la destinazione ultima). Questo, a mio parere, dovrebbe preoccupare e mettere in allerta.
Scene di quotidiana follia
Tralasciando questa breve riflessione, credo sia interessante riportare quanto cui ho avuto la fortuna ed il dispiacere di assistere: scene in cui la personalità del rifugiato viene annullata, i suoi bisogni resi insignificanti. Scene, come ho potuto vedere tra Letenye e Goričan (ovvero tra Ungheria e Croazia), in cui uomini, donne e bambini viaggiano per ore in autobus fatiscenti, anche distesi per terra, senza conoscere la vera destinazione (“Germany?” “Yes, Yes! Germany, don't worry!”), spesso trovandosi davanti confini chiusi e dunque costretti a tornare da dove erano partiti, senza ricevere né cibo né acqua né assistenza medica (a meno che non incontrino fortuitamente dei volontari e, altrettanto fortuitamente, questi ultimi siano autorizzati ad entrare negli autobus per fare un sorriso e scambiare qualche parola piuttosto che, come purtroppo il più delle volte accade, essere costretti a cedere il cibo alle forze dell'ordine, che si limitano ad appoggiare asetticamente il cibo all'interno del mezzo, come del resto farebbe un fattore per la sua mandria in una stalla). Scene in cui si è finalmente alla frontiera (come è capitato al confine tra Croazia e Slovenia, nei pressi di Zagreb) e si attende una notte intera nella speranza di esser “accolti” dallo stato successivo, senza coperte, tende, vestiario nonostante le pessime condizioni climatiche. Scene in cui scoppiano violentissimi scontri, come a Röszke (Ungheria), in cui perde la vita una bambina, colpita da un anfibio troppo pesante. E come dimenticare poi gli incredibili ingranaggi che lentamente mettono in atto la disastrosa macchina del campo profughi presso Opatovac, in territorio croato? Un meccanismo che fagocita l'essenza di migliaia e migliaia di esseri umani, costringendoli a sopportare molto più di quanto un uomo meriterebbe di subire.
Dentro ad un campo profughi croato
Per entrarvi aspettano ore in piedi, anche sotto la pioggia, per poi passare attraverso il triage medico ed infine essere registrati. A questo punto entrano finalmente nel campo. In moltissimi sostano accanto all'entrata perché hanno paura di addentrarsi all'interno: “È troppo poco illuminato”, mi dicono. “Non ci sono forze dell'ordine che ci possano proteggere”, aggiungono: in tanti, tantissimi si sentono infatti minacciati, soprattutto gli afghani dai siriani e viceversa.
“Children! We are children!” (“Bambini! Siamo bambini!”) mi dicono gli uomini affamati, sapendo che i pochi indispensabili ed insufficienti materiali a disposizione (quali cibo, acqua e coperte) verranno distribuiti prima (in realtà, solo) ai bambini. E mentre cammino facendo attenzione a non calpestare quel groviglio di gambe e volti, vengo circondata da persone affamate e disidratate, che non ricevono i vestiti necessari (nonostante sia noto come in territorio ungherese continuino ad arrivare moltissime donazioni, convogliate ad esempio nella città di Szeged, tuttavia non ancora distribuite nei luoghi di necessità), né un'adeguata assistenza medica (ci sono quattro medici per più di diecimila persone). I miei occhi scrutano quelle folle stipate in tendoni dell'esercito del tutto insalubri, che vivono giorni rinchiuse in questo luogo ricoperto dai rifiuti ed invaso da piccoli fuocherelli accesi per far fronte alla notte. Immagini indescrivibili si susseguono davanti a me: bambini in lacrime perché riescono ad uscire, ma senza il fratello più grande con cui viaggiano; donne gravide che, nonostante il dolore, si rifiutano di andare in ospedale perché non possono esser accompagnate da nessuno e dunque temono di non ritrovare alcun familiare al proprio ritorno; madri che perdono per sempre i propri bambini in mezzo al caos; uomini che si rotolano disperati tra la paglia, il fango e i rifiuti a causa del bruciore provocato dallo spray al peperoncino; piccoli e grandi che tremano nel freddo della notte a cui devo dire che le coperte sono finite.
Per uscire vince la legge del più forte: non essendoci alcuna forma di ordine, molti padri di famiglia si lamentano del fatto che sono dentro al campo da più di quattro giorni. Il problema è che non ce la fanno ad affrontare la calca: è troppo pericoloso esporre i loro figli a quella ressa. Molti mi consegnano delle liste con su scritti i nomi di circa cinquanta persone: “Vogliamo avere l'opportunità di uscire come tutti! Vogliamo consegnare queste liste alla polizia, cosicché si possa creare un ordine, ma non ci ascoltano: aiutaci!”. E mentre cerco disperatamente di parlare con i capi della polizia, dell'esercito, della croce rossa, vengo travolta dalla baraonda in prossimità della tanto bramata uscita: in tantissimi necessitano soccorsi perché si sentono male per le troppe persone attorno, l'eccessivo caldo, la scarsa aria. Dopo poco anche a causa degli scontri. “Mi hanno colpita forte”, mi dice un'insegnante siriana. “Sono una donna, ho detto loro! Non potete colpirmi! Ci trattano come bestie! Se ci dicessero gentilmente come fare, se creare una fila o meno, noi seguiremmo le loro indicazioni, invece vanno avanti a spintoni e manganellate”. “Dove sono i nostri diritti?” mi chiede un uomo che ha perso la sua famiglia e a cui viene impedito di andarla a cercare. “Credevo che l'Europa fosse diversa”. In realtà anche io credevo che l'Europa e i paesi limitrofi ad essa fossero diversi: fossero luoghi in cui si ha a cuore la persona nella sua interezza. Palesemente mi sbagliavo ed il fatto che in queste ultime ore pare che si stia cercando di limitare i disagi all'interno del campo mediante un nuovo progetto di organizzazione (viene diviso in settori per diminuire il livello di disordine e permettere un'adeguata pulizia) non mi farà cambiare idea.
Dove vanno?
Al di là del fatto che ancora potrebbe sfuggire quale sia il senso di questa prigione a cielo aperto, se non quello di registrarvi l'effettivo numero di rifugiati in arrivo, con conseguente richiesta di finanziamenti all'Unione Europea, potrebbe sorgere spontaneo il seguente quesito: che fine fanno tutti questi migranti? Quando si è lì, gira la voce che i rifugiati saranno portati presso la stazione di Tovernik, a pochi chilometri di distanza, per poi prendere un treno verso l'Ungheria ed infine l'Austria. Chiunque potrebbe ingenuamente pensare che si tratta di un unico mezzo di locomozione, fornito dei beni necessari ad affrontare il lungo viaggio. Ebbene, nulla è più distante dalla realtà: una volta arrivati alla stazione le persone vengono indirizzate all'interno del treno in cui trascorreranno all'incirca tre ore (si prenda atto che da ora in avanti non ripeterò più il fatto che durante tutto il tragitto non viene loro dispensato cibo, acqua e assistenza medica). Vengono poi fatte scendere alla stazione di Botovo (Croazia) e fatte camminare per circa due chilometri su strada asfaltata. A questo punto si raggiunge il climax dell'incredibile: si immagini, come a me è capitato, di essere lì nel pieno di una notte piovosa, ventosa, in un sito completamente privo di illuminazione. Ci si figuri di seguire questa marcia in mezzo a persone stanche ed infreddolite che, improvvisamente, sono costrette a deviare in un sentiero in mezzo ad un bosco, pieno di fango scivoloso. Tutti: uomini, donne, bambini, disabili, anziani. Un percorso che solamente una persona in fuga potrebbe pensare di fare. Una via non visibile dalla strada, lontana dai luoghi abitati. Insomma, il classico luogo fatto di quella melma che ricopre e nasconde la cruda verità. Ho attraversato quel sentiero incredula fino al confine circondato dalle guardie e delimitato dal filo spinato. Benvenuti in Ungheria! Ho scoperto che avrebbero preso un secondo treno (forse di una lunga serie?). Mi sono diretta allora nella stazione di frontiera di Kijarat e, prima di essere cacciata via, ho visto per l'ultima volta quell'ammasso di sguardi rinchiusi, come i loro sogni, dentro a quei vagoni di cui non conosciamo l'effettiva destinazione.
Credo che quanto messo in luce testimoni come tutto faccia pensare ad uno spostamento ottimizzato di merci, ad un sistema in cui l'individuo perde la libertà, il rispetto, la dignità ed è privo di ogni forma decisionale perché succube di un progetto di cui è protagonista ma non artefice.
“Che cosa bella è l'uomo purché si sappia comportare da uomo?”, diceva Menandro. Forse è il caso di riportare alla memoria queste antiche parole, mai tanto attuali, a chi sta promuovendo questo scempio e si rifiuta di pensare ad un ormai essenziale canale umanitario.
Sara Manzoni - Agenzia di Stampa Giovanile
In Medias Res

L'associazione In Medias Res nasce nel Luglio del 2015 a Trento come naturale prosecuzione del progetto di media-attivismo "Agenzia di Stampa Giovanile", realizzato da un collettivo formato da giovani con background e formazione differenti. Il progetto nasce in seno all'associazione Jangada nel 2012 e in collaborazione con l'associazione Viração Educomunicação in Brasile, in concomitanza con il Summit Rio+20 e cresce entrando in contatto e collaborando negli anni con diversi enti e associazioni a livello locale ed internazionale (tra gli altri l’Assessorato alla Cooperazione e allo Sviluppo della Provincia Autonoma di Trento, l'Universita di Trento, l'Osservatorio Trentino sul Clima, il consorzio dei Comuni della provincia di Trento BIM dell’Adige, la Fundación TierraVida in Argentina e la Rete+Tu). L'associazione si occupa principalemtene di divulgazione libera e indipendente di tematiche legate all'ambiente, alla società e all'economia attraverso la pubblicazione di articoli e video (negli ultimi anni ha realizzato reportages durante le Conferenze delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici - COP18 di Doha, COP19 di Varsavia, COP20 di Lima), percorsi formativi nelle scuole e laboratori e eventi aperti alla cittadinanza.