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Di ciambelle, salvagenti e cambiamenti climatici
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Avoid the unmanageable, manage the unavoidable. Evitare ciò che non si può gestire, gestire ciò che non si può evitare: un equilibrio precario che ci costringe in bilico tra l’adattarci a ciò che succede e il mitigare gli effetti di ciò che non riusciamo a impedire. Ci basta questo per sintetizzare le sfide epocali a cui siamo di fronte? Parlare di cambiamenti climatici ci riguarda da molto vicino. Non solo per ragioni scientifiche, né soltanto per le ricadute economiche ed etiche che la molteplicità di manifestazioni ad essi collegati porta con sé. Ci riguarda perché l’uomo è il centro del mondo che sta subendo questi cambiamenti, come una delle vittime che ne subiscono le conseguenze, certo, ma anche come agente prepotente da annoverare tra le cause dei cambiamenti stessi.
Insomma, le basi per una lettura antropocentrica della questione ci sono tutte, però forse, oltre al fastidio delle zanzare d’inverno e ai disagi provocati da piogge monsoniche a latitudini impreviste, c’è qualcos’altro da tenere presente. Per esempio, la biodiversità. Che non è semplice e leziosa “biofilia”, momento amarcord per nostalgici della vita nei campi o del paradiso perduto. E’ questione di sopravvivenza, di specie minacciate e vulnerabili (si veda la nota lista rossa di IUCN), compresa la nostra. Lo rappresenta efficacemente un gruppo di scienziati, guidati da Johan Rockström, in questa immagine introdotta nel 2009, che intendeva definire i limiti ambientali entro i quali l’umanità può vivere in maniera sicura. L’urgenza era – e rimane – quella di un nuovo paradigma per integrare interpretazione e pratica dello sviluppo delle società umane con il mantenimento del “sistema Terra” in una condizione di resilienza.
Questa analisi scientifica, che si è dimostrata influente per la definizione di politiche globali di sostenibilità, prende in considerazione la possibilità di un passaggio a una nuova era successiva all’Olocene, cioè l’epoca geologica più recente e quella in cui ci troviamo. Abbiamo infatti evidenze sempre maggiori che le attività umane abbiano ricadute pesanti sulla salute del Pianeta, al punto tale da minacciarne la stessa durata. Combinando una comprensione scientifica sempre più accurata dei meccanismi che sottendono al funzionamento della complessa macchina-Terra, il modello PB (Planet Boundaries) identifica livelli di “perturbazioni antropiche” sotto i quali il rischio di destabilizzare il sistema rimane contenuto – appunto uno spazio sicuro per lo sviluppo a livello globale delle società.
In concreto, di cosa stiamo parlando? Stiamo parlando di “soglie” che è bene non oltrepassare, in ambiti quali ad esempio la quantità di ozono nella stratosfera, l’acidificazione degli oceani, la perdita di biodiversità, l’accesso all’acqua potabile, il cambiamento climatico e l’integrità della biosfera, questi ultimi considerati fattori cruciali perché legati al consumo energetico della Terra e alla sua capacità di adattamento, nonché perché potenzialmente in grado – qualora i limiti fossero infranti in maniera sostanziale e persistente – di causare da soli lo spostamento del sistema Terra verso una nuova era. Questo modello certo non indica come le società dovrebbero svilupparsi: queste sono scelte politiche che devono considerare dimensioni tipiche dello sviluppo umano, come ad esempio l’equità sociale, non inclusa nel paradigma. Molti di questi limiti hanno inoltre una duplice chiave di lettura, che riflette l’importanza, contemporaneamente, delle interazioni a livello globale e dell’eterogeneità che contraddistingue questi processi a livello territoriale.
Tuttavia, identificando uno spazio sicuro, basato sui processi biofisici intrinseci che regolano la stabilità del sistema entro il quale gli uomini possono muoversi senza compromettere la salute del Pianeta, il modello contribuisce senza dubbio a fornire elementi scientifici per una scelta politica lungimirante e sensata.
Ancor più interessante è però la rilettura che ne dà Kate Raworth, economista di fama internazionale, “bucando” la raffigurazione grafica del modello PB in quello che è diventato noto come il diagramma della ciambella. Di che si tratta? La sfida per l’umanità del 21° secolo è più che mai quella di rispondere ai bisogni di tutti grazie a un utilizzo oculato e responsabile delle risorse (limitate!) a disposizione: precondizione necessaria è il soddisfacimento dei bisogni essenziali per tutti (cibo, acqua, casa, salute, lavoro, partecipazione politica), senza però stressare il Pianeta con un sovra-sfruttamento indiscriminato. Quello della ciambella è un approccio “giocosamente serio”, come la stessa Raworth lo definisce, per visualizzare efficacemente questa sfida e agisce come compasso per lo sviluppo umano, sottolineando l’importanza di attività che favoriscano un’impronta ecologica leggera e sostenibile.
Che la ciambella sia uno schema di salvataggio per l’umanità mi ha fatto inevitabilmente pensare alla sua somiglianza con un salvagente, e mi ha riportato alla mente quattro chiacchiere scambiate recentemente con uno psicanalista proprio sulla natura dell’immagine del salvagente: il buco che lo definisce gli appartiene? Una risposta impulsiva ci spingerebbe a dire che no, non ne fa parte, è materia diversa ed estranea alla sua struttura. Ma, pensandoci bene, è proprio quello spazio a caratterizzarne natura e scopo, è ciò che lo rende utile e funzionale. Se fate attenzione a cosa c’è nel cerchio interno del diagramma della ciambella capirete il perché di questo collegamento: ciò che sembra estraneo all’organigramma, difficile da raggiungere, a volte apparentemente scollegato nei legami con la struttura del sistema è in realtà l’indispensabile, ricircolo tra un dentro e un fuori per nulla scontati, leva di senso e, mai come in questo caso, vita.
Anna Molinari

Giornalista freelance e formatrice, laureata in Scienze filosofiche, collabora con diverse realtà sui temi della comunicazione ambientale. Gestisce il progetto indipendente www.ecoselvatica.it per la divulgazione filosofica in natura attraverso laboratori e approfondimenti. È istruttrice CSEN di Forest Bathing. Ha pubblicato i libri Ventodentro (2020) e Come perla in conchiglia (2024). Per la testata si occupa principalmente di tematiche legate a fauna selvatica, aree protette e tutela del territorio e delle comunità locali.