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Dell'Africa? Ci interessa solo il numero dei morti. Però se Blair...
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Apprendiamo che Tony Blair farà un’allocuzione in apertura di un seminario dal titolo "Fede Sviluppo", organizzato dalla Tony Blair Faith Foundation, dal Dipartimento per lo Sviluppo Internazionale, da Islam Relief, World Vision e Oxfam. Durante l’allocuzione l’ex premier affermerà ”la religione può costituire un canale per aggregare i cittadini in un impegno attivo di pressione per il cambiamento, come nel caso delle recenti elezioni in Kenya”.
L’azione nonviolenta post elettorale della nostra controparte Saint Martin, sostenuta dalla Provincia Autonoma di Trento con un micro progetto ad hoc, non ha avuto alcun riscontro in ambito nazionale nonostante un’ampia narrazione. Vita Trentina e pochi giornali locali avevano colto la “forza della nonviolenza”. Alcune agenzie, contattate da Unimondo, rispondevano con cinismo “ci interessano solo sapere il numero dei morti”. Pubblichiamo all’uopo, uno scritto di Alberto Conci non apparso su Unimondo ma sulla rivista Cooperazione tra Consumatori che ben fotografa la situazione d’allora. Auspichiamo, da sempre, una maggior attenzione della stampa su certi temi. Anche in assenza di Tony Blair, please. (Fabio Pipinato)
La non notizia della nonviolenza
Di Alberto Conci
L’Africa riesce a bucare lo schermo o a conquistare qualche pagina di giornale a tre condizioni: un incidente occorso a un cittadino occidentale; la violazione di grandi interessi occidentali; una crescita imprevista dell’instabilità che possa far pensare all’inizio di crisi di più ampio respiro.
Per il resto, l’Africa non esiste.
Il cittadino occidentale può passare mesi senza ricevere nessuna notizia dal continente, finché una qualche situazione di crisi non spinge a riaccendere, brevemente, i riflettori.
Ed è esattamente questo ciò che è successo fra la fine dello scorso anno e l’inizio del 2008, con l’aprirsi di diversi fronti di crisi nell’Africa centrale.
In Kenya la situazione è precipitata dopo le elezioni politiche, con un crescendo di scontri fra i sostenitori dei due candidati, Kibaki e Odinga. Le dinamiche degli scontri hanno fatto temere il peggio, riproponendo quegli schemi già tragicamente noti che prepararono il genocidio rwandese: la campagna diffamatoria contro l’avversario, la calunnia sistematica, l’individuazione del nemico su base etnica, la contrapposizione fra clan, la percezione di una crescente insicurezza, la paura che spinge alcuni a sfruttare la situazione per armarsi, e poi alla fine lo scontro. Mille morti in un mese, 300.000 sfollati (molti dei quali hanno varcato il confine con l’Uganda), l’economia congelata, i servizi – dalla sanità alla scuola – praticamente bloccati.
In Sudan si è riaccesa la crisi, sempre più complessa, del Darfur. Gli scontri fra le forze filogovernative e i ribelli sono riesplosi nelle aree a nord di El Geneina, capitale del Darfur occidentale, con un bilancio di oltre 300 morti nei primi due giorni di scontri, all’inizio di febbraio.
Nello stesso periodo è precipitata la situazione nel Ciad, con la capitale N’djamena occupata dai ribelli sostenuti dal governo sudanese contro l’attuale presidente Idriss Déby. Una situazione che ha immediatamente allertato il governo francese, preoccupato per la stabilità dell’ex colonia. Anche qui decine di migliaia di profughi, molti dei quali hanno sconfinato dalla capitale nel vicino Camerun.
La gravità oggettiva della crisi, che rischia di destabilizzare o addirittura di incendiare un’area molto più grande dell’Europa, è confermata dall’intensificarsi degli interventi internazionali. È intervenuto l’ONU, Kofi Annan ha personalmente fatto mediazione nella crisi del Kenya, l’Unione Africana sta seguendo l’evolversi degli eventi e ha messo a disposizione mediazioni politiche e forze militari per operazioni di interposizione, l’Unione Europea ha dato disponibilità alle Nazioni Unite per un dispiegamento di forze, la Francia è direttamente intervenuta nel conflitto del Ciad.
Eppure, ancora una volta, tutta la complessa vicenda centroafricana è stata letta solo con gli occhi dell’Occidente. Ciò che veramente stupisce è la sottovalutazione delle risorse interne e delle opzioni politiche che l’Africa sa mettere in atto in situazioni di crisi. Il caso del Kenya è emblematico. Mentre in Occidente arrivavano solo le notizie degli scontri, che rinforzavano l’immagine catastrofica del conflitto etnico, in Kenya si attivava un processo di ricomposizione nonviolenta del conflitto che semplicemente non ha trovato spazio sui media occidentali. In una delle zone più calde del conflitto, le due etnie principali, kikuyu e luo, non hanno ceduto alla tentazione dello scontro e hanno attivato incredibili iniziative per depotenziare le conseguenze del conflitto.
“A Nyahururu – ha raccontato recentemente Fabio Pipinato, che a lungo a lavorato in Rwanda e in Kenya – i profughi sono stati ospitati nelle comunità di diversi villaggi anziché in campi anonimi”; e l’Organizzazione per i diritti umani e l’azione non violenta di Saint Martin – sempre a Nyahururu, nella zona equatoriale – ha acquistato una pagina del giornale più importante del Kenya, “The Nation”, per lanciare un messaggio di riconciliazione nazionale. Non solo. Il 30 gennaio, sessantesimo anniversario della morte di Gandhi, le comunità religiose di una vasta regione a nord di Nairobi, hanno organizzato un’imponente manifestazione contro la violenza, nella quale i rappresentanti religiosi cristiani e musulmani hanno confessato come colpa la scelta di incontrarsi solo dopo lo scoppio delle violenze, senza essersi preoccupati di fare azione preventiva.
Tutto questo è stato sostenuto da un crescente interesse dei media locali, consapevoli delle responsabilità dell’informazione nei conflitti: la memoria del ruolo criminale giocato in Rwanda da Radio Mille Colline è ancora viva. E sullo stesso piano va collocata la presenza in Kenya del vescovo sudafricano Desmond Tutu, già Premio Nobel per la Pace, la pressione del vertice dell’Unione Africana di Addis Abeba, e perfino la pressione di quei settori economici che vedono nel conflitto un grave rischio di recessione dal quale ricavano vantaggi solo i mercanti di morte.
Perché, dunque, di questa crisi complessa è passato solo l’aspetto più drammatico? Certo, la violenza buca meglio lo schermo e lo schematismo del conflitto etnico è un comodo criterio per spiegare realtà che magari sono particolarmente difficili da decifrare in Occidente.
Ma questo non basta. Soprattutto perché l’Occidente non è senza responsabilità nei conflitti africani. Non si dimentichi, solo per fare un esempio, che nel Rwanda il conflitto cosiddetto “etnico” fra hutu e tutsi, in realtà qualche interesse lo ha coperto: prima dello scoppio delle violenze, nella notte fra 6 e 7 aprile 1994, la lingua ufficiale era il francese e il presidente viaggiava su un jet privato regalatogli dal figlio di Mitterrand, grazie alla cui mediazione erano state anche acquistate molte delle armi del paese. Alla fine del conflitto la lingua ufficiale è l’inglese e la capitale Kigali diventa un’importante testa di ponte della diplomazia (e non solo) americana per la definizione delle strategie da attuare nella crisi del Congo.
Viene da chiedersi, insomma, se la sottovalutazione delle esperienze nonviolente che l’Africa esprime non derivi da una precisa volontà, sorretta in parte da un pregiudizio sottilmente razziale (l’idea di una maggiore propensione alla violenza…), in parte dall’idea di derivazione coloniale che la politica africana debba svolgersi sotto tutela, in parte infine dall’interesse dei Paesi occidentali per le risorse del continente. Ma proprio per questo tale silenzio sul volto più responsabile dell’Africa rimane assolutamente inaccettabile.
(Alberto Conci)