Decolonizzare popoli e natura, a partire dal linguaggio

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Le parole. Ci accompagnano da quando siamo nati sul Pianeta e non solo contribuiscono alla costruzione – o alla distruzione – delle relazioni con gli altri, ma sono elementi costitutivi della nostra capacità di pensare la realtà. Anzi le parole, la realtà, la creano proprio. E ci sono tempi, nella storia del pensiero, in cui una riflessione sulle parole sembra più urgente e necessaria. Perché le parole sono risorse per comunicare, esprimere visioni e prospettive, definire confini o sfumarli, difendere valori o riconsiderarli. Sono strumenti imprescindibili del nostro stare al mondo, spesso usati a sproposito, ma in ogni caso fondamentali per tessere narrazioni che ci riguardano.

Survival International, alla luce dell’evidenza scientifica che dimostra che i popoli indigeni comprendono e gestiscono i loro ambienti meglio di chiunque altro (l'80% della biodiversità della Terra si trova nei loro territori!), ha colto questo bisogno nell’ambito della conservazione e gli ha dato voce attraverso una guida che non ha pretese di essere esaustiva, ma che intraprende un percorso di responsabilizzazione e consapevolezza lastricato di sfide: la principale, decolonizzare alcuni concetti fondamentali che riguardano la natura.

Perché questa esigenza? Perché purtroppo ancora oggi, esattamente come in epoca coloniale, il modello dominante di conservazione è quello della “Conservazione fortezza”, che prevede la creazione in terre indigene di Aree Protette militarizzate accessibili solo ai ricchi. Questa “conservazione” sta distruggendo la terra e la vita dei popoli indigeni. Ciò nonostante, è proprio lì che confluisce la maggior parte dei finanziamenti occidentali destinati alla protezione della natura. I miti che sostengono questo modello di conservazione permeano i testi scolastici, i media, i documentari sulla fauna selvatica, gli annunci pubblicitari delle ONG. Le immagini della “natura” con cui siamo cresciuti, e le parole che usiamo per descriverla, modellano politiche e azioni. Siamo abituati a pensare come se le parole che usiamo per descrivere una circostanza fossero neutre, oggettive o “scientifiche”. Ma non lo sono.

La conservazione ha una storia oscura, che affonda le sue radici nel colonialismo, nella supremazia bianca, nell'ingiustizia sociale, nel furto di terre, nell’estrattivismo e nella violenza. E anche le principali organizzazioni della conservazione non hanno ancora messo in discussione questo passato, ma continuano a perpetuarlo, a volte inconsapevolmente, attraverso il linguaggio, con il risultato di non renderci davvero conto che la nostra “natura” è la casa di altri, il fondamento del loro modo di vivere, il luogo dei loro antenati, la fonte della maggior parte di ciò che li sostiene.

Ecco perché quando scriviamo o parliamo di questioni ambientali, è fondamentale pensare alle parole e ai concetti che usiamo. La violenza e il furto di terra subiti da milioni di indigeni e da altre popolazioni locali nel nome della conservazione derivano in gran parte, anche se sembra esagerato pensarlo, da questi assunti. È importante dunque individuare e riconoscere termini “razzializzati”, ovvero termini che, a seconda delle persone a cui si riferiscono, vengono utilizzati diversamente, connotando azioni in maniera migliorativa o peggiorativa a seconda di chi le compie, come per esempio le coppie cacciagione/bushmeat, caccia/bracconaggio, esplorazione/intrusione, allevatori/pastori, viaggiatori/nomadi, coesistenza/conflitto con la fauna selvatica, e via dicendo.

Non è solo qui però il problema. La criticità del linguaggio si esprime anche attraverso parole fuorvianti se utilizzate superficialmente o contestualizzate in maniera inadeguata: pensiamo a parole come guardiaparco, aree protette, wilderness/natura selvaggia, natura, sovrappopolazione, consultazione, trasferimento volontario, ripristino… solo per citarne alcune. Molte altre si trovano sul sito di Survival International nella pagina dedicata a decolonizzare il linguaggio, con spunti di riflessione per fare un passo al di là delle parole. E questo non per indurci, inibiti dall’utilizzare magari parole inappropriate, a tacere ed essere dunque complici o testimoni silenziosi di ingiustizie che continuano ad essere perpetuate anche attraverso terminologie di parte e scorrette, ma proprio per invece migliorare il nostro modo di esprimerci, entrando dentro le pieghe delle parole stesse per stenderle a favore di una realtà più equa e attenta, autenticamente bio-diversa.

Anna Molinari

Giornalista freelance e formatrice, laureata in Scienze filosofiche, collabora con diverse realtà sui temi della comunicazione ambientale. Gestisce il progetto indipendente www.ecoselvatica.it per la divulgazione filosofica in natura attraverso laboratori e approfondimenti. È istruttrice CSEN di Forest Bathing. Ha pubblicato i libri Ventodentro (2020) e Come perla in conchiglia (2024). Per la testata si occupa principalmente di tematiche legate a fauna selvatica, aree protette e tutela del territorio e delle comunità locali.

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