www.unimondo.org/Notizie/Da-Bhopal-a-Dhaka-le-fabbriche-di-morte-56566
Da Bhopal a Dhaka, le fabbriche di morte
Notizie
Stampa
Lo scorso 11 aprile crollava a Dhaka, in Bangladesh, lo "Spectrum" un maglificio fornitore di molte imprese europee tra cui Zara, Carrefour, Karstadt: 74 le vittime tra i lavoratori e centinaia i feriti. L'edificio sorgeva su un terreno acquitrinoso ed era stato costruito solo tre anni fa in modo abusivo con materiali inadatti a sostenere il carico di macchinari industriali.
Sedici ore prima del crollo gli operai avevano dato l'allarme vedendo delle crepe aprirsi nei muri, ma erano stati invitati a riprendere il lavoro. Carrefour e l'Associazione dei produttori ed esportatori di abbigliamento del Bangladesh (BGMEA) hanno già svolto le loro indagini, ma non hanno reso pubblici i risultati. Intanto i lavoratori sopravvissuti sono senza lavoro, stanno sostenendo tutte le spese per cure mediche e non hanno ricevuto i salari e gli straordinari arretrati. La BGMEA ha finora risarcito solo alcune delle famiglie colpite con 79mila taka che verranno integrate con altre 21mila da parte del Tribunale del lavoro secondo gli accordi previsti per il risarcimento di incidenti gravi e non mortali. Al cambio corrente sono 1285 euro a famiglia.
È l'ultimo episodio di una serie cominciata nel 1984 a Bhopal, in India, dove circa 3000 persone morirono mentre altre 300 mila vennero contaminate riportando gravi danni di salute a causa della nube tossica fuoriuscita dagli stabilimenti chimici della multinazionale statunitense Union Carbide. La lunga battaglia giudiziaria si è conclusa con la condanna della multinazionale americana al pagamento di 470 milioni di dollari al governo indiano: ma di tale somma solo una minima parte è stata versata alle vittime e il contenzioso è tuttora in corso.
Due fatti che hanno portato alla ribalta delle cronache il problema dell'attività delle imprese transnazionali e delle loro consociate nel Sud del mondo. Questioni che sono arrivate anche alle Nazioni Unite dove l'ultima Commissione per i diritti umani - nonostante la strenua opposizione degli Stati Uniti, Australia e Sudafrica - ha deciso di rafforzare il mandato del Rappresentante speciale sul rispetto dei diritti umani per quanto riguarda le imprese. La decisione non è piaciuta alle "corporations" che si sono difese chiedendo di non essere sottoposte ad obblighi di cui sarebbero destinatari solo gli Stati e ribadendo la loro convinzione di essere "motore di sviluppo" per i Paesi più poveri.
La decisione dell'Onu è frutto anche dell'attivismo di molteplici associazioni della società civile alle quali le aziende sono state chiamate a rispondere anche in tribunale. E' conosciuto il caso di Mark Kaski - un attivista per i diritti umani - che nel 1998 fece causa alla Nike per alcuni "errori" nel primo Rapporto sociale dell'azienda in riferimento alle ditte subappaltate dal gigante americano in Asia. Invocando le leggi antitrust della California, Kaski riusci a sostenere che attraverso il rapporto sociale la Nike aveva ingannato il pubblico sulle condizioni di lavoro in quelle ditte asiatiche nelle quali veniva impiegata manodopera minorile. La Corte Suprema della California dette ragione a Kaski e la Nike dovette versare 1,4 milioni di dollari di multa. Nel recente "Responsibility Report 2004", la Nike rende nota la lista di 700 fabbriche a cui subappalta la produzione; di queste 124 sono in Cina, 73 in Thailandia, 35 in Corea del Sud, 34 in Vietnam e molte altre in Messico e in tutta l'America Latina. Dei 650 mila lavoratori dei prodotti Nike, la maggioranza dei quali ha un'età compresa tra i 19 e i 25 anni, solo 24 mila sono i dipendenti in senso stretto della società. Nel rapporto la Nike ammette che in 569 aziende controllate ci sono state violazioni degli standard fondamentali nel lavoro.
Un tema scottante, dunque, sul quale le associazioni hanno da tempo iniziato a far sentire la loro voce, anche in Italia. "Tutti i Paesi dovrebbero avere l'obbligo di assicurare che le imprese transnazionali, come Nike, non commettano abusi quando operano all'estero, ma questo nella pratica non accade mai" - dice Nicola Borello portavoce della campagna "Meno beneficenza Più diritti". Molti aspetti delle imprese transnazionali, infatti, sfuggono alle legislazioni nazionali, mentre diversi abusi non sono sanzionati nemmeno dal diritto internazionale. "Un fatto che permette a molte aziende di operare in un vuoto normativo" - nota Borello che con la campagna "Meno beneficenza Più diritti" chiede al governo italiano di farsi promotore presso le Nazioni Unite di nuovi standard internazionali che stabiliscano obblighi giuridici per il rispetto dei diritti umani e dell'ambiente da parte delle imprese transnazionali.
di Andrea Trentini - www.unimondo.org