Confine diceva il cartello

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Foto: M. Canapini ®

Non odo una voce in paese; né un abbaio né tantomeno scricchioli domestici. Rio di Pusteria (comune italiano di 3.100 abitanti in provincia di Bolzano) pare uno di quei laghi piatti circondati da boschi di conifere, dentro il quale tre, quattro volte al giorno starnazzano i rospi o casca una pigna secca, modellando l’acqua liscia. Una statua bianca di Cristo benedice tutta la terrazza tra la Rienza e il Rio Valles. Sin dalla prima occhiata al corpo acciaccato di Don Hugo, e al suo sguardo ancora fresco, giovanile, traspaiono con chiarezza sentimenti opposti tra loro: la delusione, l’orgoglio, la gioia pudica di aver trascorso quasi mezza vita al servizio della frontiera. “Sono nato nel 1941. Frequentai le scuole elementari e medie a Merano, poi Filosofia e Teologia a Trento. Dal 1961 al 1966 trascorsi le estati a Berlino, dove mi davo da fare come muratore, operaio, sacerdote, assistente sociale. Già dal ’61 vissi il dramma del confine col muro di cemento che divideva la città in due blocchi. Come italiano, tre volte a settimana potevo raggiungere a piedi Berlino Est. Cominciai a riempire la borsa di cuoio di lettere, aiutando così alcune famiglie divise dalla cortina a mantenere i rapporti. Se mi avessero scoperto sarebbe stato uno sfacelo. Un giorno mi fermarono, ma non avevo nulla con me. Dopo cinque anni di Germania, una breve esperienza a Codissago e qualche lavoro tra Marche e Toscana, vissi ben ventitré anni a Bressanone, dove provai a far collaborare operai, carabinieri, ferrovieri provenienti da estremità geografiche opposte. Risse e litigi erano all’ordine del giorno e la situazione, in quegli anni, non era per nulla semplice. Bruscamente venni allontanato: capii col tempo che i politici non approvavano il mio impegno, la mia idea di famiglia tra lavoratori italiani e tedeschi. Parliamo di fine anni ‘60, inizio anni ‘70. In piena guerra fredda una serie di attentati sconvolse l’Alto Adige. L’irredentismo sudtirolese e la volontà della Nato di mantenere il confine del Brennero in funzione antisovietica vennero strumentalizzati dai servizi segreti che, a partire dal 1969, misero in pratica la cosiddetta strategia della tensione. Gli attentati dinamitardi venivano compiuti dai membri del BAS, acronimo di Befreiungsausschuss Südtirol (comitato per la liberazione del Sudtirolo): un’organizzazione terroristica il cui scopo era l’auto-determinazione dell’Alto Adige attraverso la secessione dall’Italia e l’annessione all’Austria. Numerosi ex terroristi, condannati dalla magistratura italiana, non hanno mai scontato la propria pena, essendo fuggiti in Germania e AustriaInsomma, venni spedito al Brennero. Nessuno aveva idea di che cosa fosse un confine, perché i confini, all’epoca, erano chiusi. Nonostante fossi il parroco di una canonica metà in territorio italiano e metà in territorio austriaco, ogni volta che passavo la frontiera mi controllavano i documenti. A quei tempi al Brennero c’erano 220 finanzieri, 82 poliziotti, 44 carabinieri più l’esercito. Padri di famiglia o giovanissimi ragazzi che parevano in esilio. E chi voleva lavorare al Brennero? In tanti, appena possibile, scappavano nei casinò o nei bordelli di InnsbruckMa c’è stato un tempo, nei primi anni Sessanta, in cui il Brennero fu pure una El Dorado per tanti nullatenenti che evadevano le tasse e contrabbandavano merci... C’è passato chiunque lassù: spie, complottisti, ministri, trafficanti e infine i profughi”.

Dietro le lenti degli occhiali scorgo ora un’anima fiaccata dagli eventi, un sintetico sorriso indossato come barriera per restare a galla e non impazzire. “Alla fine del 1991, quando scoppiò la guerra nell’Ex Jugoslavia, i primi profughi furono accolti negli alberghi di Trieste e dintorni, ma con la bella stagione dovettero liberare le stanze, per cui, in gran parte, partirono per la Germania e si bloccarono al Brennero. Le guardie italiane chiudevano un occhio e li mandavano in parrocchia da me. Ma chi pagava tutte le spese per mantenerli? Feci salti mortali per procurarmi del cibo, un bagno e, in inverno, bevande calde e un luogo in cui si potessero riparare. Ai tempi non c’era nulla: il centro commerciale, le casette né i ristorantini. Dovevano dormire al gelo sui marciapiedi o sulle banchine della stazione. Per fortuna trovai aiuto all’Hotel Posta che li accolse per un breve periodo. Qualcuno passò comunque, nonostante abbia assistito a scene che non avrei mai voluto vedere: la polizia austriaca strappava i passaporti e faceva di tutto per privare della propria identità chi provava a passare”. 

Sbilanciandomi, chiedo a Don Hugo se ha mai aiutato nessuno a superare il confine. Il tavolino, intanto, si è ricoperto di vecchi giornali, cartelle sgualcite legate tra loro con del nastro adesivo. Singoli articoli catalogati, plastificati e datati. 24 gennaio 1994, costo 3.500 Lire. Il parroco sospira e guarda in alto: per una frazione di secondo prende le fattezze di un’immagine sacra in giacca e cravatta. “Io ero controllato. A un certo punto si sono anche messi a intercettare le mie telefonate. Sono riuscito a fare passare il confine a un bel gruppo di profughi nel Natale del 1992, ma è stato fatto tutto alla luce del sole. È stato durante la festa delle autorità al Brennero; c’era il Cardinale e facoltà varie da Svizzera, Austria e Italia. Per l’occasione feci presente che il Natale era vicino e che fuori c’erano persone fuggite dalla guerra che da giorni dormivano al gelo, solo perché non avevano un timbro sul passaporto. Riuscii a convincere il capo della gendarmeria austriaca che fece un’eccezione per Natale e fece mettere il timbro sui documenti. Ma non agii solo in quell’occasione, - prosegue, intuendo forse la mia seconda domanda - ora che sono passati più di vent’anni posso dirlo. A volte indicavo sulla mappa il sentiero clandestino che in tre ore ti portava al paese austriaco più vicino; una volta accompagnai una famiglia kazaka attraverso quella strada. In un’altra occasione feci superare il confine a un bambino iraniano nascondendolo nel baule. Gran parte superò il confine autonomamente nascondendosi sotto ai tir. Non mi riferisco solamente ai profughi bosniaci o croati. C’era anche la guerra in Somalia all’epoca e ricordo che nascosi un alto generale di Mogadiscio in canonica. Con alcuni di loro sono ancora in contatto. I kazaki, ad esempio, mi hanno inviato una bellissima icona raffigurante il volto di Cristo rivestita di Foglia d’Oro. Il padre era un insegnante d’arte e nel retro del regalo è leggibile la data, 1999, e alcune incisioni in lingua russa. Purtroppo, la polizia piombò da un giorno all’altro in canonica, dicendo che se mi avessero rivisto ad aiutare i profughi mi avrebbero mandato via in ventiquattro ore come persona non gradita. A quel punto entrai in depressione e dopo un anno e lunghe sedute dallo psicologo chiesi il trasferimento. Opero a Rio di Pusteria da ventuno anni”.

“Cosa è cambiato da allora?” chiedo infine, sgranchendomi le gambe e ammirando l’icona lucente in bella mostra all’ingresso. “Continuai a lottare, andando a Roma per aiutare i profughi; scrissi petizioni per alleggerire i divieti, ma nulla. Venni cacciato anche dal Vaticano. Se avessero voluto, avrebbero potuto anticipare e gestire al meglio tutti questi flussi, poiché i numeri, se allora erano decine, oggi sono quadruplicati. Ho saputo che al Brennero è stato aperto un centro che li ospita, come avevo chiesto io vent’anni fa senza successo. Ho subito ingiurie, calunnie e processi. La mia opera non era ben vista dalle autorità, neanche dalla Chiesa. L’Europa non ha imparato la lezione. I problemi si ingigantiscono perché non si vogliono risolvere, e di questo soffre tutta l’umanità. Sappiamo bene che dietro il tema frontiera agisce un’enorme organizzazione mafiosa che vanta guadagni immensi. La storia è ciclica. Prima guadagnavano con le merci, ora con le persone. Ricordo un padre col figlio di quattro anni, da Teheran al Brennero legati sotto a un camion... Rammento la mamma coi figli di due e sei anni in fuga da Sarajevo. Oggi la figlia lavora all’ONU ed è questo che conta: che la gente incontrata è salva, sebbene io abbia passato una vita dolorosa, umiliante, triste, toccando il fondo più volte”. Con un battito di mani Don Hugo mi fa capire che l’ora è tarda. Ho giusto il tempo di stringergli la mano, che già la figura diafana si è dissolta oltre il portone bianco

Matthias Canapini

Matthias Canapini è nato nel 1992 a Fano. Viaggia a passo lento per raccontare storie con taccuino e macchina fotografica. Dal 2015 ha pubblicato "Verso Est", "Eurasia Express", "Il volto dell'altro", "Terra e dissenso" (Prospero Editore) e "Il passo dell'acero rosso" (Aras Edizioni).

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