Ciò che la comunità internazionale sperava per il Sud Sudan

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Foto: Unsplash.com

La novità di questi giorni è che il presidente Salva Kiir ha sciolto il Parlamento. E contrariamente a quanto si possa pensare, è ciò che la comunità internazionale sperava per il Sud Sudan. Lo scioglimento, infatti, era uno dei presupposti per dare gambe all’accordo di pace firmato nel febbraio 2020 fra le fazioni - troppe - in lotta per il controllo del Paese.

Così, lo scorso 8 maggio - dopo pericolose settimane di incertezza e anche per effetto della pressione internazionale - il presidente ha sciolto il Parlamento e una nuova assemblea sarà formata a breve. “Ci vorrà tempo, non troppo a lungo”, ha detto il portavoce del governo. Secondo l’accordo che ha posto fine alla guerra civile, il Parlamento deve essere ampliato da 400 membri a 550 e deve includere membri di tutte le parti dell’intesa. 

Funzionerà? Troppo presto per dirlo. Da quando il Paese ha dichiarato la propria indipendenza, nel 2011, le grandi speranze di pace e stabilità sono andate via, via scomparendo. E’ iniziata la violenza etnica, con le forze fedeli a Kiir che, dal dicembre 2013, hanno combattuto quelle schierate con Riek Machar, appartenente al gruppo etnico Nuer. Numerosi tentativi di pace sono falliti nel corso degli anni, incluso un accordo che aveva visto il leader dei ribelli tornare come vicepresidente, nel 2016: era di nuovo fuggito qualche mese dopo ed erano ricominciati i combattimenti.

La guerra civile sud-sudanese ha causato la morte di quasi 400.000 persone e provocato milioni di sfollati, dal dicembre 2013 al febbraio 2020. Ora si spera, ma gli esperti guardano con preoccupazione al futuro. In realtà, dicono, le leadership dei due protagonisti - Kiir e Machar - vengono messe in discussione nei propri gruppi, insomma non sarebbero così salde. E nonostante al momento si dividano gli incarichi di governo - il primo alla Presidenza, il secondo come vice - sono pochi a scommettere sulla loro capacità di far uscire il Paese dalla crisi.

Crisi che resta terribile, creata dalla lunga guerra civile e peggiorata in questi mesi da una delle peggiori carestie degli ultimi decenni e dal Covid19. Secondo le agenzie internazionali, circa la metà della popolazione sta affrontando “un’insicurezza alimentare acuta”. Quasi 100mila persone che vivono in diverse aree del Paese, tra cui l’area amministrativa del Grande Pibor, Bahr al-Ghazal e Warrap, si troverebbero in condizioni di “seria carestia” da marzo di quest’anno. Almeno 8,5milioni di persone avrebbero bisogno - sempre a giudizio degli esperti - di aiuti umanitari, ma il Governo ha imposto barriere burocratiche alle forniture.

Insomma, la crisi resta drammatica. E come sempre, a pagare per i giochi di potere sono donne, bambini, anziani, uomini: tutti troppo fragili e lontani per poter decidere liberamente della propria vita.

Raffaele Crocco

Sono nato a Verona nel 1960. Sono l’ideatore e direttore del progetto “Atlante delle Guerre e dei Conflitti del Mondo” e sono presidente dell’Associazione 46mo Parallelo che lo amministra. Sono caposervizio e conduttore della Tgr Rai, a Trento e collaboro con la rubrica Est Ovest di RadioUno. Sono diventato giornalista a tempo pieno nel 1988. Ho lavorato per quotidiani, televisioni, settimanali, radio siti web. Sono stato inviato in zona di guerra per Trieste Oggi, Il Gazzettino, Il Corriere della Sera, Il Manifesto, Liberazione. Ho raccontato le guerre nella ex Jugoslavia, in America Centrale, nel Vicino Oriente. Ho investigato le trame nere che legavano il secessionismo padano al neonazismo negli anni’90. Ho narrato di Tangentopoli, di Social Forum Mondiali, di G7 e G8. Ho fondato riviste: il mensile Maiz nel 1997, il quotidiano on line Peacereporter con Gino Strada nel 2003, l’Atlante delle Guerre e dei Conflitti del Mondo, nel 2009. 

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