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Cina, Birmania e l’altalena diplomatica che governa il mondo
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Il 12 giugno, mentre l’Italia cercava dialogo con l’Europa per arginare la manifestazione della storia in file di africani speranzosi, in Cina si sono incontrate due persone che per la prima volta hanno interagito per continuare, anche loro, a guidare ognuno la direzione della propria storia. Aung San Suu Kyi, l’esponente della lega nazionale democratica birmana, ha incontrato – nella sala dell’Assemblea del popolo che è la sede del parlamento cinese – l’estrema rappresentanza del partito comunista – e del governo – Xi Jinping.
Anche se il contenuto dello scambio fra i due è stato privato, rimane evidente che Suu Kyi e Xi siano due manifestazioni diverse della stessa volontà: entrambe in cerca di un appoggio diplomatico reciproco, e tutte e due – parlando di questo caso – bisognose di dimostrare l’influenza del loro potere politico-diplomatico, per così dire, maturo.
Sono molte le motivazioni che hanno portato la Cina ad invitare un esponente liberale del vicino Myanmar dopo che, dal 2011, i contatti si sono arrugginiti a causa del “processo di democratizzazione” di quest’ultimo. La Birmania è uno stato civile dove sono in corso alcune guerre, ma per molti paesi esteri è un partner economico favorito. La Cina è una nazione che, ormai l’abbiamo imparato, nelle relazioni adotta la strategia “win-win” per cui non esistono “stati amici” o “da evitare”, ma dove, “il come” un governo lava i panni in casa propria, resta un fatto privato che non limita il suo possibile ruolo di interlocutore con Pechino.
Alla fin fine, emerge che è l’economia a tirare le fila di ogni discorso diplomatico, o politico, che ufficializza quello che ufficiosamente questa scienza ha – quasi – deciso. Gli interessi economici cinesi sono evidenti: la Birmania si affaccia sull’Oceano indiano e dunque è una via naturale e necessaria per importare gas naturali dal Medio Oriente. Il governo di Thein Sein ha iniziato a tessere relazioni economiche con l’Occidente e il tornaconto diplomatico che questo può avere per la Cina è – davvero – evidente. In ballo inoltre c’è il lavoro della costruzione della diga Mytsone – interessi che muovono miliardi di dollari –, il mercato cinese della Giada è fiorente anche grazie alla Birmania e, ultima motivazione ma non di minor importanza, nei territori di confine sino-birmani è in corso una guerra. Qui la polizia governativa del Myanmar attacca la minoranza etnica Kachin (di origine cinese, Han per l’esattezza) che, pur vivendo in territorio birmano, si identifica nello stato di Kio – Kachin Independent Organization – che sulla carta è il governo di questo ceppo minoritario.
Senza guardare al lato umano della violenza che fa rivoltare lo stomaco, la confusione creata dalla guerra (che non coinvolge solo questi due fronti) fa si che gli interscambi illeciti proliferino con facilità dietro la perversa dinamica della guerriglia (consiglio questa lettura per comprendere i precari equilibri Kachin). Infatti, il crocevia fra Yunnan (regione cinese sud occidentale) e lo stato di Kachin (a nord-est della Birmania) è alimentato dal traffico di Palissadro, un tipo di legno con cui la Cina fabbrica la maggior parte dei mobili e per il quale i disboscamenti fraudolenti in Birmania sono la regola e non l’eccezione. Dall’Oppio che, lavorato in modo sintetico, oltre ad essere spacciato come medicinale, è diventato – come ogni droga – un rimedio all’accettazione dell’incompresa sofferenza umana.
Inoltre, una guerra senza armi non è possibile continuarla… La Cina vende armamenti al governo indipendente di Kio e il governo birmano li compra da terzi per fornirli alla sua polizia, o viceversa? Dalla lezione imparata dal secolo scorso, parlando di questi traffici, non mi stupirei del contrario di ogni ipotesi – apparentemente – coerente che si possa avanzare.
Pensando a questi sottili equilibri, manipolati da un cerchio di persone con un intelletto incantevole, mi sono tornate in mente le parabole linguistiche di un soliloquio senza tempo del matematico olandese Brouwer (1881-1966), che nel suo libro “Vita arte e mistica” dice: “una delle cose di cui la vita libera evita accuratamente di macchiarsi, finché durano i suoi legami con la società, è l’economia. Incontrollabile – e continuo la sua citazione – sarà la sua certezza che follia e ingiustizia sono essenziali per quella società; se fosse migliore, se vi regnassero amore e fratellanza, essa non avrebbe ragione di esistere, non esisterebbe”.
Dall’altra parte invece, è doveroso ricordare che a novembre in Birmania ci sono le elezioni e Suu Kyi, accettando l’invito a Pechino, ha rafforzato la sua aurea di potere politico, sia agli occhi dell’opposizione che a quelli del mondo. Allo stesso tempo la sua coscienza si è trovata per la prima volta in una nazione dove, dal 2009, è imprigionato lo scrittore cinese Liu Xiaobo per aver espresso il suo pensiero e che, come è successo anche a lei nel 1991 ,non è potuto andare di persona a ritirare il premio per la pace conferitogli nel 2010.
Al di là di fantasticare su cosa sarebbe o non sarebbe accaduto se il 12 giugno Aung San Suu Kyi avesse parlato di libertà di espressione o di Liu Xiaobo al ministro cinese, queste vicende, per tornare alle parabole di Brouwer, fanno riflettere che “sulla base della giustizia, la lotta diventa più accesa e ripugnante che in assenza di giustizia”. A seconda degli interessi il mondo è sia amico della Cina che della Birmania. In base al profitto la Cina si avvicina, o meno, ai confini birmani. Per continuare ad abbeverare la sua sete di giustizia Aung San vola in Cina dove c’è un uomo che sta scontando le sue stesse pene per aver difeso le proprie idee di giustizia, perdonatemi la ripetizione.
Sembra di osservare un’altalena appesa al quadro del mondo, in cui ogni slancio è paragonabile all’interminabile tentativo di governare – o cambiare – il mondo nella direzione del “bene” che ognuno sente proprio, senza pensare che, come disse il mio ispiratore Brouwer, “manipolare e modificare la società è una cosa che lasceremo ai folli dotati di ambizione; ben sapendo che folli del genere ne esisteranno sempre: perché se non vi fosse chi ambisce all’illusione di governare il mondo, il mondo sarebbe perfetto, e non vi sarebbe bisogno di governo né di cura della comunità. E se il mondo fosse perfetto, non esisterebbe”.
Vedremo chi sarà il prossimo a farci fare un altro giro di altalena, portandoci oltre i confini di questo folle ma adorabile mondo, di cui, per paura di rimanere in balia di noi stessi, siamo portati – sempre e comunque – ad occuparcene giudicandolo.