Caro padre Alex

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Caro padre Alex,

Mi rivolgo a te dandoti del tu per una serie di motivi: ci conosciamo personalmente, condividiamo una sensibilità simile, cerchiamo di tenere gli occhi aperti sul mondo e in fondo siamo pure colleghi. Insomma giochiamo in casa. Inutile dire che io sottoscriva in pieno la tua lettera appello ai giornalisti italiani affinché si occupino di più delle vicende spesso tragiche che accadono fuori dai nostri confini, fuori dalla “fortezza” Europa. Hai detto bene: l’Italia è agli ultimi posti per quanto riguarda l’informazione estera. Conosciamo il perché e le motivazioni politiche sottostanti a questo. Anni e anni di nani e ballerine in televisione hanno portato al governo del Paese nani e ballerine; ed ora anche i giovani e rampanti virgulti che dovrebbero stare nello schieramento opposto sembrano ricalcare orme già viste guardando al mondo come se tutto fosse smart e friendly e come se l’unico modello per la politica estera fosse Tony Blair.

L’informazione sul mondo, come la sperimentiamo in Italia, vive di paradossi: è completamente assente oppure ricalca le “veline” dei circuiti internazionali che di volta in volta, per ragioni comunque abbastanza chiare, accendono i riflettori sulle crisi che fanno comodo, salvo spegnerli quando l’interesse geopolitico delle grandi potenze scema. D’altra parte incontriamo un’informazione molto diversa. Tu facevi riferimento alle agenzie missionarie che costituiscono una parte importante di una rete più ampia fatta da siti internet, associazioni no profit, organizzazioni per la cooperazione internazionale, progetti alternativi; una rete in cui contano anche i singoli che, all’insegna della precarietà lavorativa ma pure del coraggio di andare a trovare le notizie sul campo, offrono spunti, chiavi di lettura, testimonianze concrete che non “girano” certo sui mass media ufficiali.

Sarebbe inutile però, caro Alex, cercare di distinguere nettamente i buoni dai cattivi. Tutti invece abbiamo parte in un modo di percepire il mondo ancora arretrato e prigioniero di antichi pregiudizi. Non ci rendiamo a sufficienza conto che la politica estera non è diventata soltanto politica interna, come già facevano notare qualche decennio fa gli osservatori più attenti, bensì politica locale, cronaca di tutti i giorni. Proprio quella cronaca che interessa maggiormente ai cittadini. Dobbiamo far capire che il mondo è per davvero globalizzato, che la miseria (e, non dimentichiamolo, lo sviluppo) dell’Africa ci riguarda da vicino e non solo per una generica spinta etica a fronte di situazioni così drammatiche. Se non riusciamo a descrivere i nessi concreti che legano i bombardamenti del governo sudanese sul popolo Nuba, le mire petrolifere di Stati Uniti e Cina con gli sbarchi a Lampedusa e quindi con la piccola criminalità a Trento, non possiamo sperare di avere un’informazione corretta.

Non possiamo inoltre pretendere che tutti debbano interessarsi per forza alle reali dinamiche di questa crisi economica e finanziaria, al ruolo delle multinazionali; tutti non sono in grado di capire l’emergenza ambientale in atto, la logica del mercato che crea spreco e sfruttamento, la corsa all’accaparramento di terra e di risorse, le strategie politiche delle potenze e i giochi delle alleanze sempre mutevoli. È sbagliato pure fare solamente affidamento a sentimenti di compassione e di umana vicinanza nei confronti di situazioni davvero drammatiche ma che non possono essere percepite in tutta la loro gravità se non incontrandole concretamente, faccia a faccia.

La prima sfida da vincere è quella dimostrare quanto il mondo sia interconnesso. Con Unimondo da sempre cerchiamo di ragionare partendo dalla dimensione globale; ma pure dalla realtà italiana che vediamo sotto i nostri occhi ogni giorno. Quando, anche qui da noi, una persona si sente povera e disagiata non si metterà certo a comprare un giornale che parla della miseria diffusa in molti paesi o dell’ultima emergenza umanitaria. In realtà, seppur in contesti e con dinamiche assolutamente differenti, la povertà e l’emarginazione sono le stesse qui come in Africa. Anzi, come tu ben sai, la solitudine qui è più grande. Non bisognerebbe dare soltanto notizie di guerre o di massacri, ma anche delle soluzioni messe in campo. Si potrebbe evidenziare allora che conoscere cosa avviene nel mondo è utile per migliorare la propria condizione. Se non pensiamo a questo cadiamo  nel rischio del moralismo, dell’intellettualismo o della partigianeria. Tra Nord e Sud del mondo può esistere reciprocità.  Noi possiamo imparare da loro. Se non riusciamo, attraverso il racconto e le notizie, a dare questo messaggio, i migranti che arrivano da noi saranno sempre quelli che ci tolgono il lavoro, i miserabili che vivono a spese della collettività o al limite i poveracci a cui dare l’elemosina. Rimarranno sempre un problema di ordine pubblico. La questione che dobbiamo superare insieme riguarda proprio il fatto che il circuito dell’informazione alimenta proprio questo stereotipo. Sta a noi cambiarlo.

Credo che il giornalismo italiano abbia grandi potenzialità. Certamente paesi come Francia e Gran Bretagna, anche per il loro passato coloniale, hanno uno sguardo sul mondo meno provinciale del nostro. Ma noi, proprio per la nostra storia, potremmo avere un approccio più libero e una maggiore stima da parte di altre nazioni che vedono quasi sempre nell’europeo l’antico sfruttatore. Incamminiamoci su questa strada con le nostre piccole forze.

Piergiorgio Cattani

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