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Cambiare la cultura della violenza sulle donne?
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Uno spettacolo desolante. Solo così si può definire il teatrino mediatico e politico innescatosi intorno alle notizie degli stupri di Rimini e di quelli di Firenze, infierendo così doppiamente sul corpo e sullo spirito di chi quelle violenze le ha subite. Strumentalizzazioni in chiave razzista, mortificazione e umiliazione della donna che denuncia, sotto forma di insulti online e di cronache che distinguono tra stupro e stupro: c’è di tutto in questa fiera dell’assurdo, perciò non stupisce che la violenza contro le donne – nelle sue molteplici forme – abbia raggiunto livelli allarmanti in Italia, e se la mentalità è questa stiamo freschi, perché la strada da fare per un cambio di rotta è ancora lunga. Proprio per provare a far luce sul filo rosso che collega le diverse forme della violenza di genere – in una società profondamente maschilista in cui certi atteggiamenti di abuso e prevaricazione sono spesso percepiti come “normali” – il Centro Studi Erickson ha organizzato a Rimini il 13 e 14 ottobre due giornate di convegni e riflessioni dal titolo: “Affrontare la violenza sulle donne”. «Un’occasione per condividere esperienze, visioni e saperi diversi, fare rete e provare ad acquisire strumenti efficaci», spiegano. Con un messaggio nonostante tutto positivo: “Cambiare si può”.
Certo a dare un’occhiata sul web si fatica a crederlo, e la cloaca di insulti improponibili riversati in ogni momento sulla presidente della Camera Laura Boldrini è solo uno dei tantissimi esempi del sessismo imperante in rete. Basti pensare ai dati raccolti dalle Mappe dell’intolleranza di Vox-Osservatorio italiano sui diritti, che su Twitter hanno registrato oltre 1 miliardo di tweet sessisti su un campione di 2 miliardi complessivi. La Commissione sull'intolleranza, la xenofobia, il razzismo e i fenomeni di odio, istituita alla Camera nel maggio 2016 e intitolata alla memoria della parlamentare inglese Jo Cox, nella sua relazione finale ha parlato di “violenza dalla matrice culturale fortissima”, che nasce innanzitutto dalla convinzione di “debolezza” e “inferiorità” femminile: «Le manifestazioni di odio nei confronti delle donne – scrive la Commissione – si esprimono nella forma del disprezzo, della degradazione e spersonalizzazione, per lo più con connotati sessuali». E se dall’insulto sessista online alla violenza fisica vera e propria il passo può non essere breve, la “matrice culturale” di cui parla la Commissione della Camera c’è tutta, e il fenomeno sarebbe dilagante benché fortemente sottostimato.
Il recente Dossier del Viminale parla infatti di quasi 11 stupri al giorno, quattromila ogni anno e più di un milione di donne colpite in Italia. Dati che sarebbero solo la punta dell’iceberg: spesso, infatti, le violenze avvengono in famiglia, ad opera del partner o comunque di una persona conosciuta, e la donna che le subisce, per vergogna o per paura, spesso decide di non denunciare. Il problema poi è che di molte di loro ci si accorge solo quando è troppo tardi: secondo i dati Istat sulla violenza di genere, dal primo gennaio a luglio 2017 sarebbero almeno oltre 20 le donne uccise per mano maschile, una media di una vittima ogni tre giorni, mentre negli ultimi dieci anni le donne uccise in Italia sono state 1.740, di cui 1.251 (il 71,9%) in famiglia. In mezzo, ci sono tutte quelle altre forme di violenza più subdole e striscianti, comportamenti sbagliati e controllanti, che possono comunque rovinare e annientare la vita di una donna e non sono da sottovalutare.
«Credo che il primo passo per cambiare la cultura della violenza sia riconoscerla e nominarla. Se consideriamo “normale” offendere quando siamo in disaccordo con qualcuno, alzare la voce per prevaricare nella discussione, rompere oggetti quando siamo esasperati e qualche volta tirare uno schiaffo ai nostri figli quando ci mancano di rispetto, saremo portati a pensare che questi comportamenti siano normali e non fare niente per cambiare atteggiamento” spiega la dottoressa Alessandra Pauncz, che presiede il CAM di Firenze, una struttura che offre ai cosiddetti “uomini maltrattanti” dei percorsi di recupero, con strumenti per cambiare, in modo da evitare l’esacerbarsi della violenza stessa e tutelare coloro che ne sono vittime. Un lavoro di grande valenza sociale che in Italia viene svolto da 25 centri impegnati su questo fronte, con circa 300 uomini accolti ogni anno, di diversa estrazione sociale, disposti a iniziare un percorso di riabilitazione.
“Per ora l’accesso è solo su base volontaria, e gli uomini possono arrivarvi di propria iniziativa oppure su invio di servizi sociali, forze dell’ordine, avvocati o magistrati” spiega Pauncz, che parteciperà come relatrice alla due-giorni di Rimini. Secondo i dati emersi dal CAM di Firenze in base alle richieste pervenute negli ultimi sette anni di attività, l’utenza è formata da uomini che hanno agito una qualche forma di violenza contro la propria partner o ex partner, per la maggior parte di nazionalità italiana (92%) e per la maggior parte padri (il 77% ha almeno un figlio). L’esperienza del CAM mostra poi come il comportamento violento sia trasversale per età e status socio-economico, e se molti non superano le prime fasi di terapia – con il 40% dei pazienti che abbandona e non torna più – per coloro che invece continuano si osserva l’interruzione, dopo due mesi, della violenza fisica nei confronti delle loro compagne, e allo stesso tempo si sviluppa una riflessione sulle motivazioni che portano alla violenza psicologica, economica, sessuale.
«Quando lavoriamo con uomini che sono violenti non troviamo dei mostri assetati di sangue, ma semplicemente uomini che hanno appreso un linguaggio in cui per un uomo è legittimo e giusto prevaricare sugli altri ed in particolare su donne e bambini. C’è un sottile linguaggio del privilegio maschile, che fa sì che gli uomini pensino di essere legittimati ad essere violenti, senza mai percepire le proprie azioni come violente – continua Pauncz – Finché questi aspetti rimangono nascosti continuiamo a condannare ed esecrare la violenza quando assurge ai fatti di cronaca per efferatezza e crudeltà, ma lasciamo inalterato il tessuto sociale che alimenta ogni giorno i mille atti di violenza quotidiani nascosti dalla “normalità”».
Anna Toro

Laureata in filosofia e giornalista professionista dal 2008, divide attualmente le sue attività giornalistiche tra Unimondo (con cui collabora dal 2012) e la redazione di Osservatorio Iraq, dove si occupa di Afghanistan, Golfo, musica e Med Generation. In passato ha lavorato per diverse testate locali nella sua Sardegna, occupandosi di cronaca, con una pausa di un anno a Londra dove ha conseguito un diploma postlaurea, sempre in giornalismo. Nel 2010 si trasferisce definitivamente a Roma, città che adora, pur col suo caos e le sue contraddizioni. Proprio dalla Capitale trae la maggior parte degli spunti per i suoi articoli su Unimondo, principalmente su tematiche sociali, ambientali e di genere.