Bambini in ospedale, il gioco come terapia

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Non occorre citare le pagine brucianti che Fëdor Dostoevskij ha dedicato all’argomento per cogliere l’incommensurabile dimensione di angoscia e disorientamento che suscita il dolore infantile, quello vero, non generico, che viene vissuto dal bambino concreto nella sua irripetibile singolarità.

Il nostro tempo è distratto, presta attenzione ai macrofenomeni e consente raramente di fermarci e di comprendere l’infinita attesa, l’infinito bisogno di riconoscimento presente in ciascuno di questi “piccoli”.

Ad esempio, si rischia di trascurare la dose di sofferenza, spesso silenziosa e invisibile, presente in quei bambini “sotto vuoto spinto”, iperprotetti, iperpuliti, incelofanati in scatole dorate indisponibili alle normali contaminazioni di un mondo in cui – soprattutto per la socialità implicata – dobbiamo tutti sporcarci le mani. Quanta negazione dell’identità c’è in questo pseudo-amore iperpossessivo e sospettoso!

Ma ci sono anche tanti bambini colpiti da vere e proprie malattie esplicite, i cui dolori sono ben visibili nel loro corpo, ben presenti nel loro sguardo: bambini che vivono giorni, mesi, anni in ospedale. E qui, ogni attimo dura un’esistenza.

Anche l’ospedale può indurre noi adulti all’abitudine, alla disattenzione superficiale. Anche qui, in questo luogo di appuntamento di tante sofferenze, è possibile sorvolare indifferenti oppure – ricordando l’umanità che ci contrassegna – sostare, fermarci tacitando le frenesie esterne, e incontrare questo bambino, questa bambina, pronunciare il suo nome, cercare il suo sguardo, cogliere un suo sorriso e, dove questo non si manifesti, intuirlo. Giocare un po’ insieme, permettendo a questo bambino, a questa bambina di richiamare alla memoria quello che un dovrebbe essere: gioco.

È quel “poco” – solo apparentemente poco, in realtà molto – di cui questo bambino concreto ha tanto bisogno, proprio per percepire il dolore non come elemento di separazione, di solitudine, di paura, ma come dimensione di incontro, di compagnia, di condivisione.

Sembra paradossale oggi l’abbinamento dolore-incontro, sofferenza-condivisione. Noi adulti, soprattutto, abbiamo bisogno di sfatare questo apparente paradosso e, al contrario, di cogliere la forza umanizzante della relazione autentica, della solidarietà. Abbiamo bisogno, anche noi, di riappropriarci del gioco e di quelle magie relazionali e identitarie che esso consente e che ci dà la possibilità – nel vortice delle nostre città-mercato, abitate spesso da anime morte – di resistere, cioè di ri-esistere.

Questa visione, per alcuni versi alternativa, è chiaramente presente nello spirito e nelle iniziative promosse dall’AIBO (Associazione Bambino in Ospedale), che per oggi, 27 settembre, organizza la 10a Giornata nazionale di sensibilizzazione su questa tematica, proprio con l’intenzione di evidenziare all’opinione pubblica, alle istituzioni, a ciascuno di noi i diritti dei bambini ricoverati in ospedale e di sollecitare e diffondere esperienze di volontariato attivo in questo campo.

Questa giornata, perciò, sarà una festa particolare del dialogo e del sorriso per tanti bambini, protagonisti di giochi, di incontri, di racconti, di socialità. Come dovrebbe essere sempre.

Contemporaneamente, in 150 piazze italiane, circa 5000 volontari distribuiranno cesti di pere (di ottima qualità, si garantisce) per raccogliere fondi. Infatti l’ABIO ha in programma l’organizzazione di corsi di formazione per volontari, perché – come ben sappiamo – le competenze relazionali, etiche, educative non sono innate e hanno bisogno di essere promosse e continuamente perfezionate anche attraverso percorsi formativi mirati.

È evidente che questa formazione, al di là delle specifiche applicazioni nelle corsie di ospedale, può servire a sviluppare a 360° una sensibilità trasversale ai bisogni dei bambini – e non solo – in qualsiasi contesto essi si trovino.

Giuseppe Milan

(Centro interdipartimentale di Pedagogia e Psicologia dell’Infanzia – Università di Padova)

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