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Andy e gli altri “fotografi”: ce ne accorgiamo troppo tardi
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Non siamo un paese che quando “ci scappa il morto” sappia poi farsene una lezione, una correzione dei difetti, un’inversione di rotta. Ma è questo che ci vorrebbe. Anche perché per i morti c’è poco da fare. Si può solo piangerli. I morti “non scappano” – diceva anni fa Adriano Sofri – restano lì. E i fotografi morti – non tiratemi dentro la querelle se si dica fotografi o fotogiornalisti, ok? per me sono reporter, cronisti – restano dove sono stati ammazzati. In Siria o in Ucraina, in Iraq o in Thailandia, metti il dito su un punto della carta geografica e qualcuno ammazzato negli ultimi due o tre anni lo trovi.
Possiamo piangerli, magari risparmiandoci – chissà, magari ci riusciamo – l’ipocrisia della glorificazione in morte dopo il disconoscimento e l’indifferenza riservata in vita, come scrive uno del mestiere qui. Perché non stiamo parlando di Robert Capa: parliamo del reporter fotografico trentenne che percorre il mondo di questi anni.
Chi conosce questo mondo – io lo conosco, il motivo ve lo racconto un’altra volta – sa che non è un mestiere per vecchi o per studenti di master incravattati pronti a scodinzolare dietro al direttore-star che va a raccontargli come intervistare i politici. È un mestiere per trentenni sudati.
Non che qualcuno li obblighi, non hanno ricevuto nessuna cartolina-precetto i reporter fotografici, che vanno in giro per il mondo dietro guerre, trafficanti, monnezze di varia velenosità e terremoti. Però una volta si diceva che il giornalismo è una vocazione, e certe volte è vero, c’è che ci crede e lo prende sul serio. Noi che scriviamo ogni tanto dovremmo ricordarcelo sempre: c’è chi ci crede. E vale in ogni campo.
Ora il punto è che per il loro paese sono soltanto un passaporto. Se li rapiscono, se li menano, se li fermano non puoi dire “c’è un giornalista arrestato”, e resterà un cittadino “normale” fermato. Non potranno aiutarsi con una identità professionale che a volte ti fa uccidere più presto ma spesso ti salva la vita o ne attenua la durezza. L’identità a volte serve. E non raccontatemi frottole sul siamo tutti uguali: sappiamo tutti che esistono “gradi di sollecitazione” dei governi e delle burocrazie diversi a seconda di “chi” è nei guai. Anche se ovviamente non dovrebbe essere così.
E no, non è rivendicazione questa: non parlerò nemmeno dei pochi soldi pagati per le foto, del mercato senza pietà, dei middlemen del mestiere che fottono soldi su soldi come pura gabella su foto che loro non hanno in alcun modo prodotto e protetto. “Il mercato è il mercato è il mercato”, pochi lamenti. O te lo cucchi così o niente.
Però, voi girovaghi del nuovo cafonal della professione fatto di convegni preoccupati e lezioni accigliate sul futuro del giornalismo, sappiate che esiste chi nella professione ci crede e la fa così. No, posto per le cravatte nello zaino non ce n’è.
È gente giovane, che si fa venire le idee. Che individua le notizie. Che fa acrobazie per trovare i soldi per partire o un servizio assegnato da un giornale che almeno ti copra i pasti e l’albergo che a volte è un sacco a pelo. Gente che senza avvertire ambasciate, ordini, sindacati e segreterie di redazione, prende su e va in aeroporto. E va sul campo. E a volte viene sparato ma altre volte viene cacciato, preso a calci nel culo, picchiato, minacciato. O deve passare notti a scrivere mail imploranti a questo console o a quel fixer o al giornale che proprio non capisce. E poi deve cercarsi la fonte, perché il mestiere è cambiato e attorno alle immagini devi mettere parole, devi mettere video, devi verificare che non ci sia niente di taroccato. È come se tutte le fasi di lavorazione del giornalismo fossero entrate in uno zainetto che sta sulle spalle di uno solo. È il giornalismo come prodotto dell’intelletto e non come molecola di un’organizzazione che ti protegge e ti paga. Dovrebbe valere di più, non di meno del giornalismo “stanziale”
Tutta roba che costa soldi e lavoro e vita e che un burocrate a un desk qualsiasi giudicherà all’altezza o meno del suo borderò da pidocchiosi.
Non che sia una specificità italiana, anzi, come si vede dalle news i morti sono una distribuzione molto regolare. Ma l’Italia ha questa caratteristica, che questi suoi “reporter fotografici” non li vede e non li sente. Fiscalmente non si sa cosa facciano.
Giornalisti? Volete dire l’ordine? Ah sì, l’ordine, quella cosa per cui se lavori per i giornali stranieri e non puoi mandargli copia dei giornali non ti fanno neanche la tessera di pubblicista. Che per carità non servirà a niente ma, sapete, conta quando dall’altra parte del mondo un altro burocrate ti chiede un identità professionale e dire “giornalista” aiuterebbe. E aiuterebbe per pagarsi un’assicurazione sanitaria e, chissà, per carità, è pura follia, lo dico: un fondo pensione? Avere una identità a volte serve.
Se la vedete da un certo punto di vista, sono i “letterali” della vita. Quelli che hanno preso alla lettera l’idea che il lavoro devi creartelo tu e collocarlo presso il miglior offerente. Quelli che hanno imparato l’inglese. Quelli che usano una decina di tecnologie per lavorare. Quelli che non cercano neanche più il posto fisso e che di fisso vorrebbero almeno una casa da qualche parte nel mondo. Gente anche tosta. Gente che un paese dovrebbe onorare perché sta agli antipodi dell’assistenzialismo.
E sono gli stessi che fanno molta fatica a spiegare a un funzionario dell’ordine come funziona un lavoro che è distribuito in mille rivoli e che quindi la “prova materiale” che fai il giornalista sta lì nella ionosfera informativa e tu hai in mano solo pagamenti certificati. Se va bene.
Sono quelli che devono sentirsi dire da qualche teorico di terz’ordine che il diritto d’autore è una pretesa folle. E certo, tanto produrre non costa niente, anzi viaggiando ti diverti pure.
Quelli che hanno dovuto imparare a sorridere a chi, per il suo megasito galattico fino a qualche anno rubava le loro foto senza nemmeno firmarle e che oggi magari le paga qualche eurozzo con ritenuta d’acconto.
Nessuno li ha costretti. Quindi per loro niente commiserazione, che è la rogna di questo paese. Ma se cercate quelli che nel mestiere ci credono, quelli che si fanno il culo e rischiano la pelle dovete cercare da questa parte.
Ehi, voi dell’ordine, in un modo o nell’altro il tempo che arriva ci spazzerà via, lo sapete meglio di me. Ma prima di andare a fondo un modo per salvare la decenza, lasciando da parte la parola onore, ci sarebbe. Dare a tutti loro la tessera di “reporter fotografico”. Ma mica come privilegio, bensì come carta di identità, per farsi aprire la porta dall’ambasciatore italiano della repubblica di Bananas. A volte avere una identità serve.
Vittorio Zambardino
Fonte: wired.it