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Alt al buonismo. L’accoglienza migranti è anche calcolo economico
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È ora di dire apertamente come stanno le cose. È ora di replicare a quanti demonizzano i flussi migratori chiarendo loro che chi rema in tutt’altro senso non è per niente affetto da buonismo.
Dai “terzomondisti” alle più disparate organizzazioni non profit, da Papa Francesco alla Presidente della Camera Laura Boldrini, tanto per far riferimento ai simboli più citati nei mantra dei “pro ruspa contro l’invasione” sia nelle chiacchiere da bar che nei talk-show di Palazzo: i loro richiami all’accoglienza e all’integrazione dei migranti sono decisamente un invito al realismo, piuttosto che all’idealismo e al buonismo.
Non quel realismo che getta la spugna perché poco si può fare per incidere contro il flusso dei migranti, bensì quello che non ignora affatto i problemi da cui è affetto il Belpaese e vuol cercare di porre rimedio. Gli immigrati sono una necessità per l’Italia, tanto come per altri Stati europei. Punto. Ignoranza pura è ciò che mostrano quanti non conoscono, appunto ignorano, i problemi dettati da una natalità sotto zero e da un invecchiamento costante della popolazione che non solo condanna alla lunga l’Italia allo spopolamento ma incide fortemente sulla perdita di produzione e dei servizi di welfare. I migranti già oggi con le loro tasse, la richiesta di servizi scolastici o sanitari, l’ingresso nei servizi di base del mondo del lavoro consentono il funzionamento del Paese, nonostante le forti amnesie dell’italiano medio. Forse la così tanto sbandierata “appropriazione indebita di beni, territori, tradizioni” pesa più, tanto per fare alcuni esempi, della possibilità di assistenza ai malati e agli anziani, del pagamento delle pensioni, dello sviluppo agrario e manifatturiero italiano, nonché del traino determinante per l’economia del settore dell’accoglienza (forse uno dei pochi in attivo)? Mediatori culturali, operatori di cooperative sociali e di organizzazioni umanitarie, forze di polizia, fornitori di cibo, di indumenti e di beni sanitari, ma anche manovali, locatori, insegnanti, medici, avvocati lavorano anche grazie agli immigrati: l’economia italiana ha infatti dinanzi una domanda di mercato continua di beni e servizi innescati dall’arrivo dei migranti di cui i suoi cittadini traggono profitto, oltre che utilità.
Che poi anche il ritornello della “appropriazione indebita”, unita al “voler comandare a casa nostra” e all’“ospitalità dei migranti nelle case di chi promuove l’accoglienza”, frasi di sovente espresse dai sostenitori di muri e di fili spinati, andrebbe meglio argomentata: non è che condividere con gli stranieri presenti in Italia, siano essi profughi, rifugiati o migranti economici, i diritti e i servizi di cui usufruiscono i cittadini italiani “doc” rende loro più tutelati e al contempo meno sottoposti a doveri. Tutt’altro. Proprio garantendo uno standard minino di tutela, si può pensare di trasformare il Paese e di uscire dalla crisi economica e sociale in cui da tempo è caduta. Esempi concreti ce ne sono a macchia di leopardo in tutta Italia e il riconoscimento appena conferito a Domenico Lucano, sindaco di Riace, piccolo comune in provincia di Reggio Calabria più famoso finora per i suoi “bronzi” che per l’integrazione sociale, ne è una prova cocente. Unico italiano incluso nella classifica degli uomini più influenti del mondo stilata dalla rivista statunitense “Fortune”, sotto la sua amministrazione Riace ha realizzato un modello di integrazione originale, puntando sugli immigrati contro lo spopolamento e per la salvaguardia delle attività artigianali e dei vecchi mestieri destinati ad estinguersi. Il recupero di case abbandonate, insieme alla formazione per il lavoro, ha consentito al paesino di ritrovare linfa vitale nei nuovi individui a cui erogare beni e servizi.
Non si tratta di un caso isolato. Sempre a sud, in Puglia, la città di Martina Franca (quasi 50mila abitanti) è stata recentemente definita da Daniele Biella sulla rivista Vita “faro per l’integrazione”. La coltivazione di orti urbani collettivi, la realizzazione di una audioguida in sei lingue per i percorsi turistici della zona, la scrittura autobiografica insieme agli utenti di un centro per malati psichici, l’attivazione di corsi di lingua sono state individuate come valide soluzioni per promuovere il territorio, fornire ricadute positive tanto ai migranti quanto alla popolazione locale, tenendo anche in considerazione l’ampio disagio sociale diffuso nel Tarantino. Anche nel nord della Penisola esistono esperienze analoghe. Nella provincia di Genova un progetto di ristorazione sociale consente di curare le relazioni tra le persone; inoltre l’accoglienza in piccoli centri urbani avviene in maniera quasi spontanea e decisamente indolore, superando pregiudizi e paure. Tutto il contrario delle grandi città, come Milano, laddove è più difficile accorgersi delle persone che si hanno al proprio fianco: ecco allora che le biblioteche si stanno trasformando in luoghi di integrazione, in grandi piazze democratiche, che forniscono servizi ben più ampi delle funzioni di base, consentendo rinnovamento e nuova vitalità: un solo dato, alla biblioteca Dergano-Bovisa di Milano il volume più richiesto per molto tempo è stato il dizionario di arabo!
“Quanti migranti possiamo accogliere?”, domanda criticamente qualcuno. Difficile quantificarlo in un Paese di poco più di 60 milioni di abitanti e con una superficie di 301.340 Km2 ma un esempio potrebbe aiutare a correggere una percezione di invasione amplificata dai media e strumentalizzata da alcuni politici. Il Libano, Paese di prima accoglienza dei profughi siriani, oggi accoglie 1 milione e mezzo circa di persone: la sua popolazione è passata dai 4,5 milioni a superare i 6 milioni di abitanti (1 su 4 è dunque un profugo siriano) su una superficie di appena 10.452 Km2, poco meno dell’Abruzzo (con 10.831 Km2) per comprendere in effettivo le sue dimensioni. L’intera Europa accoglie poco più di 3 milioni di rifugiati. Numeri reali, non proiezioni ideologiche.
E una provocazione è quasi d’obbligo: se cercassimo di quantificare i numeri dell’accoglienza di mani e cervelli italiani in fuga dalla crisi economica a che numeri giungeremmo?
Miriam Rossi

Miriam Rossi (Viterbo, 1981). Dottoressa di ricerca in Storia delle Relazioni e delle Organizzazioni Internazionali, è esperta di diritti umani, ONU e politica internazionale. Dopo 10 anni nel mondo della ricerca e altrettanti nel settore della cooperazione internazionale (e aver imparato a fare formazione, progettazione e comunicazione), attualmente opera all'interno dell'Università degli studi di Trento per il più ampio trasferimento della conoscenza e del sapere scientifico.