Alla fiera delle tragedie

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Quando il direttore mi ha proposto di occuparmi di questo tema gli avrei detto volentieri di no. Non ho alcuna simpatia per le Giornate con la G maiuscola, quelle dove ci si ricorda di qualcosa o qualcuno a scadenza 24h. Ancor meno mi sentivo adeguata a scrivere qualcosa sulla Giornata della Memoria. Eppure ho detto sì, va bene, lo faccio io questo pezzo. Non per dovere, perché quasi mai la redazione di Unimondo impone a un redattore la copertura di un argomento che non sia nelle sue corde. Ho detto di sì per raccogliere la sfida e per provare a porre qualche domanda davanti alla barbarie che non trova risposte.

Lo faccio partendo da un’occasione: l’uscita nelle sale un paio di giorni fa (25 gennaio) di Austerlitz, film di Sergei Loznitsa distribuito da Lab80, che di domande ne pone già di per sé molte. In particolare si interroga sul turismo di massa negli ex campi di concentramento nazisti. Un breve trailer è sufficiente a dare l’idea di quale sia il taglio: un’equilibrata riflessione sul senso del turismo nei luoghi della memoria. Si potrebbe dire che sia il film stesso una visita guidata tra le contraddizioni sollevate dalle masse che si affollano nei luoghi della Shoah: selfie, filmini, fotografie, pullman che scaricano gruppi e guide, sguardi vaganti alla ricerca di scatti poetici a ricordo di una tragedia che di poetico ha avuto ben poco. Lasciano in bocca un gusto amaro, una sgradevole sensazione di inopportuno. Ambientato nell’ex campo di concentramento di Sachenhausen, il film non giudica. Legge. Legge i movimenti delle persone, i vestiti, gli sguardi, le azioni. Essere turista in un luogo di morte più che di speranza quali sentimenti provoca nel visitatore? Emozioni, interesse storico, semplice curiosità? Quale valore ha in rapporto al ricordare, all’informare, al capire? E se quel turista fossimo o fossimo stati noi, cosa avremmo fatto?

Non so rispondere, e non è nemmeno lo scopo di queste righe. Pur avendo avuto un nonno fatto prigioniero per qualche tempo nel campo di Mauthausen e poi salvatosi rocambolescamente come in un film grazie alla simpatia suscitata in una guardia tedesca, non ho mai avuto un desiderio impellente di ripercorrere quei luoghi. Né di essere turista in campi di morte. Forse perché non sento l’esigenza della presenza per sentire la gravità di cui sono imbevuti. Forse perché rifuggo dal vedere con i miei occhi i luoghi del dolore che altri hanno subito, rifiuto di ripercorrere la deriva di un’epoca e di un’umanità che hanno lasciato un’eredità pesante per l’etica, la coscienza, la politica, le persone. Un’epoca da cui la storia non ha imparato l’essenziale né il necessario.

Le domande cadono a grappoli, gironzolano intorno alla relazione, se esiste e se ha senso immaginarla, tra l’immortalare e il capire, tra il fare memoria visiva e artistica di eventi al di sopra delle nostre possibilità di comprensione e, forse, metabolizzazione. Una provocazione non scontata, che probabilmente urta le sensibilità di molti ma che ci sbatte in faccia l’invisibile che i monumenti alla memoria raccolgono, è quella dell’artista israeliano Shahak Shapira, che ha photoshoppato i ritratti fotografici sullo sfondo di un monumento alla memoria con le immagini reali di cui quel monumento è sublimazione. Con un risultato sconcertante, nauseante. Ma gli interrogativi ronzano anche intorno al rapporto tra le tragedie attuali e la memoria del passato, tra il rivedere in differita gli scatti nelle camere a gas e l’indignarsi per i genocidi di oggi, per le violazioni dei diritti umani di cui siamo testimoni nei luoghi del presente ma che ci lasciano a volte indifferenti e silenziosi testimoni. Mi capita qualche volta di rivedere le foto che avevo scattato appena prima dell’inizio della guerra alla Moschea degli Omayyadi di Aleppo. Mi si stringe il cuore davanti alle immagini di com’è oggi, violata, quel suo respiro di infinito soffocato sotto le macerie. Mi chiedo se un giorno ci saranno anche lì turisti in coda a farsi fotografare, uno dei tanti sparpagliati esempi di come una civiltà intrisa di cultura possa essere sbriciolata dalla violenza e dall’ignoranza. Un professore del liceo che ricordo con stima e affetto ricordava sempre quanto fosse più importante avere domande senza risposta che risposte senza domande. Questo è uno di quei casi. E la domanda più pesante che grava sui nostri giorni è quella che ci spinge a chiederci quanti altri luoghi ancora dovremo celebrare, quante altre giornate ancora dovremo indire perché la memoria non diventi un vuoto susseguirsi di cerimonie e appuntamenti ma una lente di lettura per le tragedie del presente e probabilmente del futuro, per volgere lì l’attenzione e gli sforzi a che non vengano ripetute e perpetrate.

Anna Molinari

Giornalista freelance e formatrice, laureata in Scienze filosofiche, collabora con diverse realtà sui temi della comunicazione ambientale. Gestisce il progetto indipendente www.ecoselvatica.it per la divulgazione filosofica in natura attraverso laboratori e approfondimenti. È istruttrice CSEN di Forest Bathing. Ha pubblicato i libri Ventodentro (2020) e Come perla in conchiglia (2024). Per la testata si occupa principalmente di tematiche legate a fauna selvatica, aree protette e tutela del territorio e delle comunità locali.

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